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 2025  luglio 20 Domenica calendario

Gilliam: “Voglio una vita come il mio Brazil”

Il samba gioioso e l’architettura distopica di una società kafkiana. Il contrasto crudele tra melodia e immagini diBrazilè la chiave della potenza che dona longevità al film di Terry Gilliam, uscito quarant’anni fa e riproposto all’Umbria Film Festival di Montone di cui il cineasta è presidente. Racconta di Sam Lowry, impiegato che cerca di fuggire dalla grigia routine e dall’oppressione statale con la fantasia e l’amore per una donna misteriosa.
Aquarela do Brasil è l’elemento narrativo che sottolinea il distacco tra la realtà sognata dal protagonista e il mondo reale. «Tutto è iniziato dalla canzone di Barroso», ricorda Gilliam via Zoom dal suo studio coloratissimo.
«Ero a Port Talbot, in Galles, su una spiaggia coperta di polvere di carbone, in una città brutta, industriale. Ma il sole tramontava ed era bellissimo. Ho immaginato una radio che trasmetteva Brazil: guardi il tramonto e vuoi essere innamorato. È da lì che è nato il film, ed è lì che finisce».
Aveva previsto il successo?
«Non lo si può pianificare. È più saggio pianificare il disastro, così si rimane sempre sorpresi. Quando iniziammo a proiettarlo in giro la gente abbandonava la sala. Richiedeva uno sforzo di pensiero e la maggior parte delle persone non vuole pensare».
Le influenze di Orwell e Fellini?
«Volevo intitolare il film 1984 e 1/2, ma il libro l’ho letto solo dopo aver finito il film. Conoscevo il concetto di Grande Fratello, ma non il finale. A volte noi siamo antenne che captano ciò che è nell’aria. Lo zeitgeist parla su molti livelli e bisogna solo saper ascoltare».
Com’è il mondo di “Brazil”?
«Come il nostro, di qualunque epoca. È passato, presente e futuro insieme. La tecnologia resta ancorata al passato, mentre va avanti. Quella mescolanza era ciò che mi interessava. Sono stato molto influenzato da Metropolis».
Cosa dice il film sulla burocrazia e sulla perdita dell’individualità?
«Sam, a differenza degli altri, non aspira a salire nella gerarchia del sistema, rifiuta la responsabilità, resta sotto i radar, vuole tornare a casa e sognare. È molto egoista, in un certo senso. E perciò lo puniamo nel finale: non ha assunto la responsabilità di far parte di un sistema grande e dannoso».
La scelta di Jonathan Pryce?
«Cercavo qualcuno più giovane. Ero a Los Angeles con la videocamera a fare provini. Il mio casting director mi disse: “Devi vedere questo ragazzo in un film che stanno montando”. Era Risky business. In una scena, Tom Cruise ballava in mutande. Ho pensato: “Questo ragazzo è una star”. L’ho contattato per un provino, rispose che il suo entourage non glielo permetteva. Credo sapessero già che sarebbe diventato famoso e non volevano che circolassero vecchi provini imbarazzanti. Jonathan era reduce da un film su Lutero, era magrissimo e rasato, mia moglie lavorava nel reparto trucco dei Monty Python, prese da lì una parrucca e gliela mise. Fu spettacolare».
De Niro voleva fare il protagonista?
«No. Bobby aveva appena girato C’era una volta in America con Sergio Leone. Scoprimmo che era anche un grande fan dei Monty Python. È stato meticolosissimo. Costruimmo parte del set in anticipo per provare con le macchine all’interno del muro. È difficile per una star arrivare su un set per un ruolo minore. Ma fu grande».
L’amore è forma di resistenza o trappola nel sistema di controllo?
«L’amore è rischioso: più ami, più sarà dura la caduta. Meglio allora il sogno di Sam e il suo folle lieto fine».
Come è arrivata nel film la protagonista, Kim Greist?
«Feci un provino a Madonna, non ancora bionda ossigenata ma solo una ragazzina italiana di successo nel Lower Manhattan. E poi Jamie Lee Curtis, Kathleen Turner. Ma ho scelto l’inesperta Kim Greist. Fece un provino eccezionale ma sul set, con De Niro e Pryce, non ha replicato quella magia istintiva. Ho ridotto il ruolo a una figura da sogno, un sogno tosto».
La battaglia con i produttori?
«La Fox lo ha distribuito in Europa senza problemi, la Universal lo odiava. Rifiutai di cambiarlo, lo bloccarono.
Misi un necrologio gigante su Variety: “Quando fate uscire Brazil?”».
Che tipo di cinema le piace oggi?
«Quentin Tarantino, i fratelli Coen… Molti giovani registi hanno capito che, se vuoi una carriera, devi adattarti. Io non ho l’ho mai avuta e non hanno potuto distruggerla. Nolan eVilleneuve sono bravi, ma non mi sorprendono. Sono troppo vecchio. Ho visto troppi grandi film. Nessuno ha fatto qualcosa di dirompente come Brazil. E poi, in fondo, Brazil non l’ho fatto io. Quel tizio è morto tempo fa. Gli somigliavo, ma non sono più io».
Il ricordo più bello?
«Quando la mia non ancora moglie se n’è andata dicendomi: “Ci sposiamo o non mi vedi mai più”. L’ho rivista. Da 52 anni stiamo insieme».

Quanto “Brazil” racconta l’oggi?
«Pensi alla scena in cui Jill chiede a Sam Lowry quanti terroristi ha visto e lui risponde: “È il mio primo giorno”.
In quel mondo, come nella Gran Bretagna di oggi, la burocrazia ha bisogno dei terroristi, veri o finti.
Cronaca: c’è questo gruppo pro-palestinese, sono usciti con un monopattino e della vernice. Hanno imbrattato l’edificio del ministero della Difesa. Il governo li ha classificaticome una organizzazione terroristica. E ora dicono che anche chi protesta sostenendo che non si tratta di terroristi può essere arrestato».
Il futuro?
«Sono ottimista riguardo al mondo che sto lasciando, non a quello in cui vivo. Presto me ne andrò. Il futuro è cupo. Ho due nipotini di 8 e 9 anni, temo per loro. Spero siano più intelligenti di noi».