Robinson, 20 luglio 2025
Thomas Mann la coscienza dell’Europa
Uno degli scaffali più affollati della biblioteca mentale che mi porto sempre dietro è quello dei grandi libri che i corsi di letteratura e le classifiche dei bestseller hanno gettato nell’oblio. Secondo me, questi libri di ogni epoca e continente sono indimenticabili perché fanno quello che un buon libro dovrebbe fare: aiutano a porsi vecchi quesiti in modi nuovi e illuminanti. Purtroppo, non posso condividere con i miei cari lettori ciò che mi entusiasma perché, sebbene anche loro conservino nelle loro biblioteche mentali libri ingiustamente dimenticati, di rado i loro titoli e i miei coincidono. Chi tra i miei amici ha letto José Bianco, Frederick Prokosch, Ibn Tufail, C. H. B. Kitchin, Luciano Bianciardi, Amparo Dávila? Tale è la ricchezza delle nostre letterature.
Eppure, talvolta capita che la Dea Bendata giri la ruota in modo tale che uno scrittore dimenticato resusciti miracolosamente e torni a essere celebrato. Dopo essere stato acclamato come uno dei più grandi scrittori della prima parte del Ventesimo secolo, Thomas Mann cadde, se non proprio nell’oblio, in qualcosa di forse peggiore: il circolo degli scrittori passati di moda, in compagnia di Anatole France, Alberto Moravia e Per Lagerkvist. Comparando Mann a Faulkner, Italo Calvino sostenne che il primo era davvero «un autore del Diciannovesimo secolo», mentre Faulkner, secondo lui, «indicava la via da seguire». Bertolt Brecht definì Mann «un colletto inamidato».
Borges lesse Mann in età avanzata e disse a Bioy Casares che per lui l’autore dei Buddenbrock era «un perfetto idiota». Nel 1950, una recensione pubblicata sulla rivista New Yorker definì Mann «un grande scrittore, ma forse non così tanto grande». Probabilmente, il fatto che fin dagli inizi fosse stato visto come un Balzac tedesco sminuì Mann agli occhi dei modernisti. Gli scrittori diventano ciò che il loro pubblico immagina che siano, e poi deludono quello stesso pubblico per non aver seguito i cambiamenti della moda.
Pur avendo scritto, a soli ventisei anni, la saga dei Buddenbrock – l’articolata narrazione della decadenza della famiglia di un mercante tedesco nel corso di quattro generazioni – Mann rifiutò fermamente di essere definito uno scrittore verista. Per descrivere il suo tentativo fallito di leggere un romanzo di Balzac, anni dopo avrebbe annotato nel suo diario queste parole: «Troppe chiacchiere inutili sulla società». Tuttavia, la società è presente nell’intera opera di Mann, dai tumulti borghesi nel regime di Bismarck descritto nei suoi primi lavori alla Giudea reinventata di Giuseppe e i suoi fratelli, dalla caleidoscopica Europa di Goethe in Carlotta a Weimar, all’esotica India divisa in caste in Le teste scambiate, ma sempre come palcoscenico per una farsa tragica e una rappresentazione parodistica.
Nel Dottor Faustus, Adrian Leverkühn è un compositore di talento che stringe un patto con il diavolo e contrae la sifilide di proposito per alimentare la sua arte per mezzo della pazzia. Provocato dal suo tentatore, Leverkühn suggerisce che, per creare qualcosa di nuovo, il vero artista moderno può ricorrere all’uso di forme artistiche obsolete dalle quali è sparita ogni forma di vita. Il diavolo prende atto di questa strategia creativa, e commenta ironicamente: «Lo so, lo so. La parodia». Mann fu consapevole di aver scelto di osservare il mondo con occhi parodistici.
Quest’anno ricorrono il centocinquantesimo anniversario della nascita di Mann e il settantesimo anniversario della sua morte (nacque il 6 giugno 1875 a Lubecca, morì il 12 agosto 1955 a Zurigo) e la ruota della fortuna ha girato per riconoscere di nuovo in lui una figura di primo piano. Riedizioni in Germania delle sue opere con il commento critico di esperti; nuove biografie come quella di Hermann Kurzke e quella di Eva Wessell e Herbert Lehnert; libri a lui dedicati come The Master di Colm Tóibín ed Empuzjon di Olga Tokarczuk hanno riportato Mann alla posizione di prestigio che sembrava aver perduto.
Mann non era interessato alla narrazione documentaristica come quella di Zola, né alla rappresentazione storica come quella di Manzoni. Anche se le varie generazioni Buddenbrock erano basate sui componenti della sua stessa famiglia anseatica, Mann non cercò di rispecchiare fedelmente la società. Scelse invece di rappresentare le tensioni tra gli eventi che l’uomo comune avrebbe chiamato realtà e l’ironia erotica che egli vedeva implicita in quegli eventi. «Nella vita, niente richiede maggiore attenzione delle cose che sembrano naturali», aveva sostenuto Balzac. Sì, avrebbe confermato Mann, tranne che, agli occhi di uno scrittore scettico e ironico, nulla dovrebbe sembrare naturale. La carriera di Mann è parallela a quella di altri scrittori che, da inizi sereni e di successo, nel corso della loro vita si ritrovano più avanti in pieno caos politico e in cambiamenti sociali in aperto contrasto con tutto ciò in cui credono. L’etica di uno scrittore si costruisce poco alla volta, spesso acquisendo qualcosa proprio dalla condotta morale e dall’empatia presenti nei suoi romanzi. In esilio, Ovidio apprese che il cambiamento è costante dalle Metamorfosi che aveva scritto in precedenza, e deplorò quei cambiamenti nel suo Tristia. Tolstoj fu elogiato a vent’anni per la sua trilogia autobiografica ma, dopo alcuni decenni, quando dovette fare i conti con le ingiustizie sociali alle quali aveva assistito da giovane, come spiegò nella sua Confessione del 1882, visse una crisi morale. George Orwell trascorse gli anni giovanili in Gran Bretagna durante la Depressione, e in seguito lottò contro i fascisti nella Guerra civile spagnola: dopo le sue prime esperienze tra i diseredati, da uomo maturo condannò il regime di Stalin nella Fattoria degli animali e in 1984.
Fino all’avvento del nazismo, Mann fu considerato dalla Repubblica di Weimar un “patriota tedesco” e il successo della sua Montagna incantata gli valse il Premio Nobel nel 1929. Quando Hitler arrivò al potere, però, gli fu consigliato di non restare in Germania e così Mann fu costretto a vivere con la sua famiglia in esilio, prima in Svizzera e poi negli Stati Uniti dove, tra gli esuli tedeschi, divenne uno dei pochi oppositori attivi del nazismo. Nei suoi discorsi alla Bbc e nei suoi articoli per i giornali, Mann denunciò la colpa collettiva del Terzo Reich, «i crimini che il popolo tedesco ha commesso come nazione, dove purtroppo la giustizia del singolo, o la colpa o l’innocenza individuale, non trovano spazio». Come Mann apprese ben presto, tuttavia, nel nostro mondo non esistono posti sicuri. Davanti all’ascesa del maccartismo nel suo riparo americano – dove era definito «uno dei massimi difensori di Stalin e compagnia» – Mann non si lasciò intimidire e si unì alle proteste contro l’arresto degli Hollywood Ten, per esempio, e di altri intellettuali perseguitati. In uno dei suoi discorsi alla Bbc dichiarò: «Da cittadino americano di origini tedesche, posso testimoniare che alcune evoluzioni politiche mi sono tristemente familiari. Intolleranza religiosa, inquisizioni politiche, declino della certezza del diritto, e tutto questo in nome di un presunto “stato di emergenza”». Mann aggiunse poi il seguente avvertimento: «In Germania iniziò tutto così». Nell’America di oggi le sue parole riecheggiano spaventosamente.
Mann, tuttavia, divenne insofferente nei confronti dell’approccio soft dei suoi colleghi scrittori, e affermò che «un poeta che abiura alla politica è un uomo spiritualmente perduto». Nel 1939, adottando la voce di Goethe inCarlotta a Weimar, Mann rimproverò così i suoi connazionali tedeschi: «È triste che non conoscano il fascino della verità; è odioso vedere come abbian cari fumosità ed ebbrezza e qualunque indisciplinato eccesso, come si abbandonino fiduciosi a ogni mascalzone esaltato che ridesti i loro più bassi istinti, li rafforzi nei loro vizi e insegni a concepire la nazionalità come un isolamento e una rozzezza». Tre anni prima, dal suo esilio in California, Mann aveva ammonito: «In ogni umanesimo c’è un elemento di debolezza che va congiunto con il suo disprezzo del fanatismo, con la sua tolleranza e con il suo amore per il dubbio, insomma con la sua naturale bontà, e che in certe circostanze può diventargli fatale». Ciò che occorre oggi, concluse Mann, «è un umanesimo militante, un umanesimo che scopra la propria virilità». Oggi questo umanesimo militante è più che mai necessario. Senza di esso, come Mann sapeva bene, la civiltà non sopravvivrà.