la Repubblica, 22 luglio 2025
L’eredità di Ruskin che odiava le macchine e cercava la bellezza
È andata all’asta nei giorni scorsi a Londra, presso la casa Sworders, una serie imponente di lettere, oggetti e libri di John Ruskin, il grande storico e critico d’arte londinese magnifico disegnatore e dotto esegeta. Oggi, nel pieno di una nuova rivoluzione tecnologica, si riaccende l’interesse su di lui. Perché questo intellettuale nato da genitori scozzesi fu da un lato un formidabile propugnatore di un’idea progressiva delle arti figurative, ma dall’altro divenne l’odiatore per antonomasia di quella che, intorno alla metà del ventesimo secolo, Leonardo Sinisgalli avrebbe denominato “civiltà delle macchine”.
La morte di Ruskin, ottantenne, nel gennaio dell’anno 1900 non potrebbe essere più emblematica in tal senso. Dopo una vita operosa e instancabile, Ruskin fu afflitto da un disturbo ciclotimico che sfociò in una vera e propria follia, ma un perenne stato di esaltazione mentale aveva accompagnato tutta la sua fervida esistenza. In proposito si può istituire un parallelismo con una vicenda analoga. Quando Ruskin scompare, infatti, comincia a muovere i primi passi nel mondo delle arti Filippo Tommaso Marinetti, italiano nato ad Alessandria d’Egitto, nutrito di cultura francese della Belle Époque parigina, eccitante e trasgressiva. Passeranno neanche dieci anni e Marinetti comincerà a smaniare, proclamando il tempo del Futurismo, destinato a farla finita con la sacrale tradizione della bellezza classica. Ruskin si era sempre battuto per affermare lo stesso principio ma da un punto di vista opposto rispetto alle istanze del rivoluzionario mondo futurista, emblema di una modernità di cui Ruskin stesso non fece in tempo ad avere sentore. Tuttavia aveva compreso, avvicinandosi la sua età tarda, come l’incombente civiltà delle macchine stesse generando un tempo legittimamente definibile come “moderno”, implicante anche forme d’arte del tutto inattese per una persona come lui che della modernità aveva avuto una concezione completamente diversa quando, giovanissimo, affermò l’istanza suprema del moderno contro l’oscurantismo di una tradizione malintesa. Ben prima di Marinetti, Ruskin era stato un ribelle e rivoluzionario convinto di essere venuto al mondo per proclamare ciò che è indispensabile vedere ma nessuno vede: la verità.
Era nato in una famiglia facoltosa e severa. La madre Margaret, una rigorosa puritana evangelica, pretese da subito di essere lei a formarlo e indirizzarlo, facendo da istitutrice, maestra, direttrice spirituale e monopolizzò questo figlio geniale fino ad accompagnarlo al college a Oxford, risiedendovi anche lei per non perdere la supremazia su di lui. I risultati furono da manuale sul piano dei successivi comportamenti del figlio in ambito amoroso, amicale e sessuale. L’arte e soltanto l’arte diverrà la sua filosofia, la sua religione, la sua prassi quotidiana, a beneficio dell’umanità globalmente intesa, molto meno dei singoli. Ruskin crederà di incarnare una sorta di riattivazione potente del Deus sive Naturaspinoziano ma con in più un acceso senso romantico. E lo formulerà subito quando incontrerà William Turner, il pittore che sarà il suo idolo.
Nel 1836 c’è la grande mostra di Turner (che era nato nel 1775) alla Royal Academy, a celebrazione dell’audacissima fase tarda dell’anziano e controverso maestro del paesaggio. Nasceva allora la questione dell’arte “moderna” destinata a sfociare, una trentina d’ anni dopo, nella bagarre sull’impressionismo, per proseguire dopo quarant’anni con la baraonda delle avanguardie storiche, mantenendosi ancora viva ai nostri giorni. Ruskin sarà tra i primi a trattare i temi cruciali della modernità partendo appunto da Turner, difeso a spada tratta quale eroe supremo dell’arte: il superamento della dialettica oggettività–soggettività; il paesaggio quale genere supremo dell’arte figurativa, che proprio nella figura e quindi nel verosimile incontra il suo limite; la differenza tra concetto di realtà e concetto di verità che non coincidono affatto nell’esercizio eletto dell’arte; la possibile definizione condivisa del criterio della bellezza; emotività e raziocinio nell’opera d’arte; l’ autentico rapporto arte-natura. Turner, per Ruskin, mostra come la natura sia il segno concreto del divino. Ne scrisse in una serie di volumi che gli editori intitolarono Modern Painters; un’opera che, con Le sette lampade dell’architettura (1849) eLe pietre di Venezia (1851-53), consacrò la sua fama. Viaggiò incessantemente, disegnando con una capacità e una qualità ineguagliabili e soprattutto scrivendo un numero smisurato di pagine, con un linguaggio descrittivo prodigioso che avrebbe influenzato Proust, Berenson, Longhi e mille altri. Soffriva perché vedeva intorno a sé nascere e crescere la civiltà industriale che, a suo avviso, avrebbe distrutto l’umano. Il telegrafo, la macchina a vapore, le ferrovie, le fabbriche, avrebbero invaso gli spazi della natura, cancellando la percezione della bellezza, quintessenza del nostro essere. Nel frattempo, Karl Marx era intento ad affrontare gli stessi problemi ma in un’ottica diversa. E si racconta che personalità come William Morris, Tolstoj, Gandhi, G.B. Shaw leggessero con interesse le tesi di Ruskin e persino, pare, il presidente Mao.