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 2025  luglio 20 Domenica calendario

Il contabile pedofilo ha cambiato vita e aiuta i detenuti

Mercoledì e giovedì sono giorni pieni per Flavio, come chiameremo questo cinquantenne dall’esistenza a scomparsa. Contabile di giorno. Artefice di un (monumentale) archivio di bambini nudi, la sera: migliaia di cartelle parcheggiate in memoria, al servizio di una sessualità occulta e violenta. Dal suo appartamento in una Roma non troppo periferica navigava in rete scambiando immagini per scoprire che, dietro qualche empatico nickname, si nascondeva un ispettore della polizia postale. Quindi il carcere. Infine la scoperta. «Ci sono persone che intraprendono un processo di riparazione interiore totale o parziale già in questo mondo», scriveva Adin Steinsaltz a proposito dell’anima (L’anima, Giuntina, 2018).
Flavio, frequentatore convinto dei corsi del Cipm Lazio (Centro italiano per la promozione della mediazione) due giorni a settimana la racconta, piuttosto, con una fotografia: «Questo ero io all’epoca del carcere», fa vedere. Quindici, forse venti chili di differenza. Lunga barba scura di chi non possiede lamette. Occhi vagamente sottomessi. Tredici anni dopo, di fronte al té freddo di un bar della Roma Est, il contabile di un tempo, polo e pantaloni corti, ha riguadagnato le fossette alle guance e l’espressione di chi ha sconfitto il rischio di recidiva. Buttando la chiave, valutiamo, non avremmo incontrato né le une né l’altra. «Sono stato invitato a testimoniare la mia storia di fronte ai detenuti del carcere di Bollate e mentre viaggiavo tra Roma e Milano mi sono scoperto quasi contento: il mio percorso può aiutare altri, mi sono detto».
Sull’anima di Flavio le cicatrici di una detenzione fuori controllo. Per gradi: quando è stato arrestato? «Il 12/12/2012, ammesso che esista la quadratura del cerchio delle coincidenze». L’accusa era quella di detenzione di materiale pedopornografico. Le immagini alle quali abbiamo accennato con il loro carico odioso. «Ho il ricordo dei volti schifati dei poliziotti. Chi mi arrestò mi giudicò immediatamente... La tensione lavorativa e forse la mia storia affettiva mi spingevano ad accumulare quelle foto». In quel periodo la polizia postale, coordinata dai magistrati specializzati nei reati di violenza sessuale, realizzò operazioni importanti dai nomi evocativi. Spesso il numero degli arrestati si avvicinava alle grandi retate di criminalità organizzata. Gli agenti sotto copertura spendevano mesi, in qualche caso anni, per individuare file e responsabili. Qualche volta pareva di svuotare il mare con un cucchiaio: «Ho provato attrazione verso i bambini fin da quando ho ricordi di me stesso – confida —. Vale la pena di vedere un film a questo proposito. S’intitola Un altro me». È un viaggio tra i sex offender dell’Unità di trattamento intensificato del carcere di Bollate, guidati dagli psicologi del Cipm di Milano fondato, tra gli altri, da Carla Maria Xella che, dopo un ventennio in Lombardia, ha aperto un Centro per autori di violenza interpersonale anche a Roma. Tra gli obiettivi di chi partecipa ai gruppi trattamentali, come recita la carta dei servizi, c’è «la valorizzazione del pensiero sulla vittima e la considerazione delle conseguenze e del male arrecato con il proprio reato non solo alla vittima stessa, ma anche alle vittime collaterali (la famiglia della vittima, la propria famiglia...) e a sé stessi».
Il metodo funziona con tanti. Il giorno dell’arresto ha dovuto dichiararsi ai suoi? «Telefonai a mia madre dal posto di polizia, la presi alla lontana, le dissi: “Oggi non potrò andare al lavoro, mamma...”. Avvertivo lo schifo attorno a me». L’identità dello scrupoloso contabile scivolava via svelandone i desideri più devastanti. L’incontro con il carcere di Regina Coeli fu vessatorio e umiliante: «Fui alloggiato nel settimo reparto, quello nel quale anche oggi si conta il numero più alto di suicidi. Alcuni agenti misero in chiaro le cose: se non avessi obbedito mi avrebbero riservato violenze fisiche e psicologiche. Venni picchiato ma non denunciai: non c’era il reato di tortura (introdotto nel 2017, ndr) e non trovai mai il coraggio di superare le mie paure».
Vivere in una cella separata dagli altri era fortuna e disgrazia assieme. Si salvava, almeno in parte, dalla riprovazione ma non socializzava, non condivideva. Dormiva con un sacchetto di plastica in fondo al letto: «Mi preparavo così a notizie peggiori. Ero pronto a farla finita». Per paradosso, Regina Coeli, uno dei penitenziari più sovraffollati d’Europa, gli diede il destro: ottenuti gli arresti domiciliari, Flavio iniziò a frequentare i gruppi esterni del Cipm di Milano pur di sfuggire a quelle mura. La famiglia lo appoggiò senza troppe parole. (Oggi il rapporto ha un suo equilibrio: «Ci sono stati momenti di grande sincerità. Ho pianto. Abbiamo parlato»).
Il processo, intanto, faceva il suo corso. Durante la requisitoria il pm chiese 10 anni. Il giudice dimezzò. Cinque anni di carcere. Interdizione perpetua da attività che abbiano a che fare con i minori o con la cura delle persone in generale. «All’epoca della sentenza— spiega – facevo la spola tra Roma e Milano per frequentare i gruppi che dicevamo. Il mio appartamento era ipotecato per i risarcimenti alle vittime. Ma trovai i soldi per pagarmi i viaggi in treno o in aereo. Aspettai la Cassazione in una pensione milanese. Volevo costituirmi lì per evitare Regina Coeli. Così andò». Bollate, dice, era «un altro mondo». Curioso come due penitenziari possano divergere. In quegli spazi segregati Flavio trovò un ordine sconosciuto. «Non volevo sprecare il mio tempo: mi dedicai con tutto me stesso al mio percorso personale».
Naturalmente c’è altro. Il carcere gli ha portato anche patologie e accidenti. Il Covid vissuto dietro le sbarre è stato un periodo difficile: «Utilizzavamo mascherine di stoffa perché quelle chirurgiche non rientravano tra le forniture carcerarie. Ricordo che dovevamo lavarcele ogni tanto per sterilizzarle artigianalmente». Oggi, pur continuando a frequentare i gruppi, e a testimoniare il proprio vissuto con altri detenuti, Flavio riflette su sé stesso, sul lavoro che non si trova, sui problemi familiari che si affacciano all’orizzonte: «Gli autori di violenza sessuale hanno uno stigma che non passa. Dentro di me li paragono ai tossicodipendenti degli anni Settanta e Ottanta, ricordate? Venivano scansati. Così quelli come me».
Non è facile farsi carico del futuro di Flavio che, infatti, sembra attraversato da una certa consapevolezza: «Non smetto di guardare gli annunci lavorativi ma a volte sembrano fuori dal mondo...». Fuori, nella sua nuova vita, aspetta che arrivi un’altra occasione.