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 2025  luglio 20 Domenica calendario

L’Islam globale? Mezzaluna calante

Sessantun anni, di famiglia indiana trasferitasi a Zanzibar e poi a Dar es Salaam, la capitale della Tanzania dov’è nato e cresciuto, emigrato in Canada nel 1979, Faisal Devji è non a caso uno tra i maggiori esperti di storia globale. Dal 2009 è professore di Storia dell’India presso l’università di Oxford, dove è anche fellow del St. Antony’s College. Si trasferirà dopo l’estate al Balliol College per assumere la prestigiosa cattedra Beit di Global and Imperial History. Uscirà allora, il 26 agosto negli Usa per Yale University Press, il suo nuovo libro Waning Crescent. The Rise and Fall of Global Islam. Il volume racconta la parabola dell’islam globale emerso dopo la caduta degli imperi safavide in Persia, moghul in India e ottomano, poi affermatosi nel quadro della guerra fredda durante il Novecento e ora, secondo l’autore, in fase calante. «La Lettura» lo incontra presso il St. Antony’s College per dialogare sulle sue tesi.
Il titolo. Cosa intende con «mezzaluna calante»?
«Il titolo mi è stato imposto dall’editore. Avrei preferito “Fine dell’islam”, ma l’editore lo ha trovato troppo controverso».
E cos’avrebbe voluto indicare con «fine dell’islam»?
«Entrambi i significati della parola fine. Il fine, l’obbiettivo, e la fine, il compimento. L’islam che descrivo, quello che a partire dal XIX secolo diviene il protagonista della storia, implica entrambi i significati. È divenuto un soggetto globale perché aveva un fine da perseguire e al contempo, così definitosi, si è esposto alla possibilità della sua propria sconfitta».
Non è male, però, il titolo preferito dalla casa editrice americana.
«In fondo mi sono trovato d’accordo. Perché, al termine del XIX secolo, è proprio dal timore del declino dell’islam che nasce la spinta verso nuovi progetti per la sua ripresa. Una luna calante è anche una luna crescente».
Prima della fase calante, va compresa l’ascesa di quello che lei definisce «islam globale».
«La questione che pongo nel libro è la seguente: come l’islam diventa un agente della storia e con quali conseguenze?».
Tutto comincia con la fine degli imperi islamici e la necessità per i pensatori musulmani di ridefinire l’islam sotto il dominio coloniale.
«Anche l’islam, come tutte le tradizioni religiose in quel periodo, dovette identificarsi con una civiltà. Ma l’islam non poteva basarsi su un’istituzione religiosa, come il cristianesimo con la chiesa, e neppure su uno Stato, come si può ipotizzare sia accaduto per l’induismo con lo Stato indiano. Allora, per divenire un soggetto della storia, l’islam prese la forma di un sistema astratto che nessuno può possedere, di cui nessuno in particolare reclamarsi titolare».
Questo avviene nel XIX secolo.
«Quando “islam” diventa il nome di una civiltà. Nel XX secolo, poi, dopo la nascita dell’Unione Sovietica, l’islam viene sempre più visto come un’ideologia. Sempre un sistema astratto, come una civiltà, ma più coerente e più orientato ad un fine. Dunque l’islam come agente della storia si presenta in queste due versioni: la civiltà e l’ideologia».
L’islam globale si pensa come l’umanità nel suo insieme.
«Come si concepisce un soggetto globale, come agisce, come viene rappresentato? Domande reali, serie, cui l’islam si trova a dover rispondere. Come se fosse l’umanità stessa nella sua universalità. Pensiamo al riscaldamento globale, alla catastrofe nucleare, che riguardano l’umanità nel suo insieme, non un popolo in particolare. Infatti i musulmani immaginano l’islam come esso stesso un rappresentante dell’umanità e pensano che questo sia anche il suo fine, rappresentare la razza umana, parlare a suo nome. Ma per un soggetto siffatto è molto difficile, se non impossibile, diventare un agente consapevole, un agente politico».
La coincidenza di politica e religione è ciò che spaventa gli occidentali nell’islam contemporaneo. Ma lei sostiene, al contrario, che nell’islam globale le due dimensioni divengono marginali.
«Mi oppongo all’idea comune che l’islam riassuma politica e religione. Naturalmente non intendo dire che non vi sia politica nelle società islamiche. Ma voglio dire che la politica pone un problema fondamentale all’islam in quanto soggetto globale, come avviene per tutti i soggetti globali, fino all’umanità stessa».
Oltre a questo problema strutturale, secondo lei vi è anche un più specifico rigetto della politica da parte dell’islam globale.
«L’islam diventa un soggetto globale al tempo dell’imperialismo europeo, quando Stati e sovrani musulmani vengono privati del loro potere, il che riguarda tanto le figure politiche come i re quanto le autorità religiose. In questo contesto di perdita politica l’islam assume il nuovo status. Da un lato allora l’islam cercherà di rivendicare il potere politico perduto, ma dall’altro sarà esso stesso il prodotto di quella perdita».
L’islam globale ha il problema della sovranità. Che appartiene solo a Dio.
«Ci troviamo di fronte a un paradosso. Proprio mentre gli altri movimenti anticoloniali rivendicano una sovranità, i musulmani la ripudiano, la vedono come un modo di appropriarsi illegittimamente del potere divino. È una critica radicale della politica moderna incarnata nell’Occidente e nelle società coloniali. Si suggerisce invece la possibilità di una società che funzioni in un modo non politico, quasi anarchico».
In autunno lei diventerà Beit Professor of Global and Imperial History all’università di Oxford.
«La cattedra è stata creata nel 1905 come cattedra di storia coloniale grazie ad una donazione di Alfred Beit, che aveva fatto fortuna con il commercio dell’oro in Sudafrica. Si tratta di un curioso ritorno in Africa, per me» (sorride).
In Africa, dove è nato.
«Da una famiglia del Kutch, nel nord del Gujarat, di madre lingua kutchi, una lingua priva di una propria grafia e che può essere scritta in vari modi. È una piccolissima parte dell’India, ma con una grande diaspora in Africa, in Europa e in Nord America».
Che rapporto personale ha avuto con l’islam?
«La mia famiglia appartiene a una confessione sciita ultraeretica, ismaelita, una comunità tradizionalmente mischiata all’induismo. Non per semplice sincretismo, ma per una posizione filosofica esplicita secondo la quale la verità non può essere sequestrata da una certa cultura o da una certa lingua e può trovarsi in qualsiasi tradizione. Si riteneva ad esempio che Ali, il primo imam sciita, fosse la reincarnazione di Vishnu e che il Profeta stesso fosse la reincarnazione di Brahma».
Ha un retroterra religioso particolarmente ricco.
«Sono anche andato a scuola dai gesuiti. Nel retroterra di gente come me è impossibile separare ciò che è indù da ciò che è musulmano e ciò che è indù e musulmano da ciò che è cristiano».
Oltre che poco politico, l’islam globale di cui lei traccia il ritratto è anche poco religioso. In che senso?
«Bisogna essere precisi. I pensatori islamici che studio sono religiosi, credenti e spesso praticanti. Ma non possono definire religiosamente, o solo religiosamente, il soggetto globale islam che è divenuto una civiltà e a maggior ragione nel XX secolo una ideologia esplicitamente comparata al comunismo. Una civiltà può solo in parte, in modo molto attenuato, essere connessa a un ragionamento teologico o a una pratica spirituale. È dunque per la sua natura globale che l’islam minimizza la religione al suo interno. Proprio come deve fare per la politica. Sicché i pensatori scrivono in un modo tale che una persona non religiosa e non musulmana possa essere d’accordo. E non perché cerchino di persuadere, ma perché l’islam come soggetto globale non può che essere così».
Cosa vuol dire in pratica?
«Nei testi islamici di cui parlo Dio non c’è perché l’islam ha preso il suo posto. Quando il Profeta è menzionato, ciò avviene in termini secolari: niente miracoli, nulla di soprannaturale, è ridotto a una figura non teologica, a un uomo ordinario».
Come lei spiega nel libro, ciò rende il Profeta particolarmente vulnerabile.
«Questa riduzione lo rende particolarmente vulnerabile agli insulti, agli attacchi. Di conseguenza ha bisogno di essere difeso in modi straordinari, in modi nuovi. Ma anche quella difesa è priva di un linguaggio religioso o teologico».
I musulmani contemporanei non tollerano la blasfemia.
«È un linguaggio che nasce a metà del XIX secolo in India e poi viene globalizzato al tempo dei Versi satanici di Salman Rushdie più di un secolo dopo. È un linguaggio privo di elementi teologici, viene dal codice penale dell’India britannica del 1860 che sostituisce la blasfemia con l’oltraggio ai sentimenti, con la diffamazione».
Ciò che lei descrive come un islam globale senza religione arriva fino ad al Qaeda e all’Isis?
«Sì. Assistiamo ad uno straordinario sforzo per eliminare termini, categorie e ragionamenti teologici, rimossi i quali restano solo la pura passione e la pura violenza che esplodono nelle controversie sulle caricature del Profeta o sui corani bruciati».
È un ragionamento difficile da seguire per un pubblico occidentale a cui i musulmani appaiono invece molto religiosi.
«Non dico che chi protesta non sia religioso. Noto però che l’elemento teologico è assente e che è sostituito dalla passione e dalla violenza. E attribuisco la cosa al costituirsi stesso dell’islam come soggetto globale».
La donna islamizzata acquista un ruolo preminente.
«Se l’islam è così sospettoso della politica e se il musulmano ideale deve essere in un certo senso anti-politico, cioè deve rigettare la sovranità umana e deve basarsi soltanto sulle leggi che sono già state date, allora il soggetto musulmano ideale diventa la donna che tradizionalmente non ha goduto di alcun tipo di sovranità ed è vista come qualcuno che obbedisce e non ha vocazione alla leadership nella società. Ciò che sfavoriva le donne in passato, perché asservite e obbedienti, ora fa sì che vengano idealizzate».
Vi è però il problema di identificare la donna islamizzata.
«L’islam è una civiltà o un’ideologia per la quale contano solo convinzioni e idee. L’universalità dell’islam dipende dal suo rigetto di tutto ciò che è razza, etnia, nazione, lingua, cioè di ogni particolarità naturale o storica. Ora, se si viene da questa posizione, la differenza di genere diventa molto problematica. Come mostro nel libro è allora che forme esterne di differenziazione relative all’abito indossato o allo spazio occupato diventano più importanti della distinzione biologica nel definire il genere. L’investimento sul vestito (ride del gioco di parole) diventa cruciale».
La sua analisi arriva fino alle ultime forme di «militanza» islamica di questo scorcio di millennio, da al Qaeda all’Isis.
«Distinguo militanza e islamismo. Sono due cose diverse. L’islamismo appartiene alla guerra fredda. È un’ideologia, un’ideologia sistematica, tesa alla rivoluzione, all’instaurazione di uno Stato ideologico, di una società utopica. Le forme di militanza del XXI secolo sono post-guerra fredda. Non si crede più nella rivoluzione e negli stati ideologici. Sono forme più frammentate e individualiste».
Lei sottolinea il nichilismo dei movimenti più recenti.
«A questi movimenti non interessa più educare, indottrinare individui affinché mutino la loro interiorità, come si faceva al tempo della guerra fredda. La radicalizzazione è un processo molto rapido che non dipende da anni e anni di formazione. Nel contesto in cui viviamo, i social media producono personalità prive di introspezione, di profondità, in questo senso vuote, superficiali, ma non perciò incapaci di impatto, anche di impatto violento».
Qualcosa di nuovo, secondo lei, si intravede nelle primavere arabe, quelle che gli arabi hanno chiamato rivoluzioni, e nelle proteste delle donne in India e in Iran.
«Questi movimenti hanno portato in strada milioni di persone, sono stati di gran lunga i movimenti islamici più popolari del nostro tempo. Ma in essi l’islam inteso quale soggetto globale non gioca alcun ruolo. Anche se molti tra i partecipanti sono profondamente religiosi».
E questo cosa può significare?
«Forse che la politica è tornata nella vita dei musulmani, che non deve più essere minimizzata nell’islam in quanto soggetto globale. E forse che lo stesso avviene per la religione».
L’islam globale è davvero calante?
«Non esiste più tutto ciò che definì l’islamismo nella guerra fredda. I movimenti a esso connessi sono tutti crollati, resta davvero poco. Idem per gli Stati della guerra fredda. La Siria è l’ultimo a essere caduto».
L’islam globale lascia comunque una sua traccia.
«Continua a porre la domanda: come è possibile essere un soggetto globale? Cosa significa esserlo? E ancora, cosa può esserci oltre la politica tradizionale? Lo abbiamo visto con lo sforzo nelle primavere arabe di creare nuove relazioni sociali, nuovi tipi di società».
Qual è la lezione della sua «mezzaluna calante»?
«L’islam ha una storia, dotata di una sua specificità eppure intrecciata alla storia di tutti. Non c’è nulla, del fenomeno chiamato islam, che sia immutabile».