corriere.it, 22 luglio 2025
Teresa Pomodoro, sorella di Arnaldo e Giò: «A Milano arrivammo con una valigia. Coi primi soldi guadagnati ci siamo messi a ballare»
Arnaldo (1926-2025) e Giò Pomodoro (1930-2002) non sono stati soltanto due grandi scultori italiani del Novecento: sono stati due visioni diverse di un’arte che rompeva gli schemi. Arnaldo, con i suoi dischi e colonne che sembrano aprirsi, ha scavato dentro la materia tra spazio, luce e sogno. Giò, con le sue forme fluide, ha plasmato forme che respirano e dialogano con lo spazio. Entrambi hanno creato monumenti vivi, che parlano con la città.
La sorella minore Teresa Pomodoro, custode della memoria di famiglia, è oggi assieme alle figlie Carlotta e Beatrice una voce essenziale per comprendere il senso profondo di un’eredità viva. Membro del consiglio della Fondazione Arnaldo Pomodoro, Teresa lavora per mantenere aperto il dialogo tra passato e futuro, promuovendo la formazione e sostenendo giovani artisti. Arnaldo Pomodoro non voleva mausolei, né reliquie da custodire: voleva un laboratorio, un cantiere aperto, un ventre operoso in cui altri, dopo di lui, potessero forgiare nuove crepe nel tempo delle idee.
Nel suo studio, che ha voluto aprire alla città, oggi c’è la sua fondazione.
La famiglia Pomodoro, originaria della zona tra Romagna e Marche, arriva a Milano nel 1954, dopo la morte del capofamiglia, con tanti sogni e pochissimi soldi. Il primo figlio, Arnaldo, ha 28 anni e, dopo aver studiato da geometra, insegue la sua strada nella scultura. Giorgio, detto Giò, ne ha 24, Teresa soltanto 11. Una valigia, qualche risparmio, la nebbia.
Se chiude gli occhi quali rumori, odori, voci tornano per primi?
«È troppo complicato, c’è tutto: le stanze umide dei primi appartamenti, l’odore di vernice e metallo, la città ancora nebbiosa e sghemba, la fame di bellezza che si mescola alla fame vera. Ci sono le voci di chi arrivava con una valigia leggera e un sogno pesantissimo da far stare in piedi. Ci sono silenzi che non vogliono essere spiegati».
La prima casa dov’era?
«In via Molino delle Armi. Siamo sempre rimasti più o meno in zona: via Orti, via della Commenda, via Salasco. Per me Milano è Porta Romana».
Cosa ricorda dei primi muri di casa vostra?
«Mah, un’abitazione molto semplice, avevamo pochissimi soldi. Una casa modesta e senza pretese, era però un rifugio autentico: un luogo dove cominciava la vera avventura di una famiglia che, con poco, pensava a costruire il proprio futuro nel cuore di Milano».
Che volto aveva Milano allora?
«Era un po’ più provinciale di adesso, ma più umana. Era un luogo dove si sapeva che si poteva fare tutto, bastava avere la voglia di impegnarsi, le possibilità erano enormi».
Quali furono le prime conoscenze nel mondo artistico?
«Lucio Fontana. Dava un grande aiuto a tutti i giovani, compresi i miei fratelli. Era davvero un punto di riferimento molto importante, sia dal punto di vista psicologico che pratico. Quel sostegno di Fontana era una vera e propria spinta morale in un ambiente dove emergere non era affatto scontato».
Come è nata la vocazione di Arnaldo?
«Arnaldo era geometra e lavorava al Genio Civile per la ricostruzione dopo la guerra. Aveva però una grande passione per il teatro e al Festival Rossini di Pesaro faceva di tutto, dal disegnare i costumi alle scenografie. Nostra madre era sarta e spesso era lei a realizzare i costumi disegnati da mio fratello Arnaldo. Giò, in quel periodo, era a Firenze per il servizio militare. Fu Arnaldo, dopo la morte di nostro padre, a decidere di chiedere il trasferimento e di portare tutti noi a Milano».
Come convinse vostra madre?
«In famiglia l’unica entrata sicura era lo stipendio da geometra di Arnaldo: chiese il trasferimento da Pesaro e noi venimmo a Milano proprio perché c’era la sicurezza di quello stipendio. Poi, quando l’attività da scultore cominciò a girare, per lui era diventato troppo pesante fare l’uno e l’altro. Mi ricordo il giorno in cui annunciò alla mamma che avrebbe lasciato il Genio Civile: lei fu molto preoccupata di quello che poteva accadere».
Che cos’era per i suoi fratelli l’attività artistica? Una febbre, una necessità o semplicemente lavoro?
«Nostra madre diceva sempre: “Voi fate pure gli artisti come volete, ma non dimenticate che qui si deve lavorare”. Era una donna estremamente pratica, e molto amata da tutti noi. Fu lei a indirizzare i miei fratelli a condurre una vita operativa. Eravamo in equilibrio tra sogno e concretezza, ed è questo che ha sempre sostenuto la famiglia Pomodoro: passione, ma anche radicamento nella realtà delle nostre tradizioni».
Com’era la vita a Milano per un giovane artista, negli anni Cinquanta-Sessanta?
«Durissima, durissima. Gli artisti che riuscivano a campare del proprio lavoro erano pochissimi. I miei fratelli ogni mattina andavano in studio, come impiegati dell’arte. Impiegati nel senso che erano lì a lavorare dalla mattina alla sera, a darsi da fare. Milano, allora, era officina e sacrificio. Un banco di prova spietato, dove la parola “artista” non era un’etichetta patinata, ma un mestiere da battere col martello, ora dopo ora».
C’è stato un momento in cui avete capito che la città si stava accorgendo dei fratelli Pomodoro?
«Ho un ricordo bellissimo: la prima mostra dei miei fratelli a Milano, in via Monte Napoleone. Fu l’occasione delle prime vendite da scultori. Tornarono a casa con un mazzetto di banconote, le posarono a terra e dissero: “Balliamo sopra questi soldi!”. E ci siamo messi tutti a fare il girotondo. Ho ancora questa immagine vivida in testa come ricordo e simbolo di una gioia condivisa, conquistata e piena di speranza. Il momento in cui la fatica si trasforma in riconoscimento».
Come raggiunsero questo riconoscimento?
«La grande borghesia milanese si accorse dei fratelli Pomodoro attraverso i gioielli. Erano pezzi particolari, unici nel loro genere, e proprio per questo suscitarono l’interesse di chi allora poteva apprezzare e acquistare. Erano più di semplici ornamenti: erano espressioni di arte applicata, primi segni di un linguaggio che poi si sarebbe sviluppato in sculture monumentali».
Da Milano ai viaggi per il mondo…
«Arnaldo ha sempre amato moltissimo viaggiare. Faceva grandi sacrifici, anche quando non aveva soldi, pur di muoversi, conoscere, portare le sue opere altrove. Pochi ricordano quanto lavoro ha fatto come insegnante nelle università americane: è un aspetto che alla sua dipartita quasi nessuno ha sottolineato, eppure è stato fondamentale. Furono proprio quelle esperienze negli Stati Uniti a renderlo conosciuto anche fuori dall’Italia. I primi veri collezionisti furono americani. E lui lo diceva spesso: se avesse avuto la possibilità di fondere le sue sculture in America, forse si sarebbe trasferito. Amava moltissimo la California».
Avete mantenuto un legame con la vostra terra d’origine?
«Abbiamo ricordi bellissimi delle Marche, delle nostre dolci colline, di quei sapori semplici. Nella casa di Pietrarubbia, nel cuore del Montefeltro, dove Arnaldo ha trascorso gran parte della sua infanzia, è nato nel 1990 il Centro Tam (Trattamento Artistico dei Metalli), un laboratorio dedicato alla formazione dei giovani scultori. Un modo per restituire a quei luoghi, con la sua arte, lo stesso senso di comunità, di artigianalità viva e di futuro che un giorno, tra una sfogliata e un sogno, fece partire la storia dei Pomodoro. Nelle Marche la piadina è sacra: mi ricordo che andavo a fare la spesa e che discutevamo della differenza tra quella sfogliata e quella romagnola».
I piatti tipici vi riportano alle vostre origini?
«Certo, ricordo una chiamata intercontinentale. Ero negli Usa e Arnaldo mi telefonò: “Mi devi dare la ricetta del coniglio alla marchigiana, perché da quando sei partita non l’ho più mangiato”... E così, al telefono, dalla California a Milano, gli dettai la ricetta: è il coniglio ripieno, il cosiddetto “in porchetta”, e lui cominciò a cucinarselo da solo».