Corriere della Sera, 22 luglio 2025
Elezioni regionali, l’irritazione di Meloni per il «risiko» del Nord. E in Veneto la lista Zaia rimane un tabù
Il summit delle nebbie. Senza un orario di inizio annunciato e di fatto senza un orario di chiusura: l’accordo è ancora tutto da raggiungere. Il vertice tra Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Antonio Tajani e Maurizio Lupi, è stato annunciato e rinviato più volte, da molte settimane. Avrebbe dovuto essere «dopo le Amministrative», ma i Comuni hanno già i sindaci da quasi un mese mentre ieri, ancora alle 18.42, il vice premier Antonio Tajani ammetteva che «non si sa ancora a che ora ci vedremo». Perché i nodi sono aggrovigliati e qualunque soluzione ha un prezzo.
Giorgia Meloni, in questa partita, non ha apprezzato diverse cose. Non soltanto l’idea di non poter piazzare una testa di ponte al nord in una regione del calibro del Veneto, cosa che pare abbia finito per accettare da tempo per il senso di responsabilità, da leader, nei confronti della coalizione.
Come ripetono molti Fratelli d’Italia, non è entusiasta nemmeno del fatto che non ci sia almeno un patto chiaro con la Lega, alla luce del sole, che assegni al suo partito la Lombardia nel peraltro remoto 2028. Certo, ancora ieri c’era chi almanaccava sull’ipotesi di dimissioni del presidente lombardo Attilio Fontana con un anno di anticipo, per far coincidere le elezioni sotto alla Madonnina con le politiche. Si sente dire che il «governatore avrebbe un posto pronto in Senato». Senza che questo sposti di un centimetro la radice del problema: Matteo Salvini non può dire oggi che ha già rinunciato alla culla della Lega, nonostante l’avvicendamento sia ormai nelle cose. O meglio, nei numeri.
Ma il punto vero è un altro. Se la premier rinunciasse al Veneto, dicono da FdI, «nemmeno vorrebbe sentir parlare di una lista Zaia». Sulla carta capace di confermarsi, come già cinque anni fa, il primo partito della Regione. Di più: FdI esclude anche la possibilità che il nome del governatore sia utilizzato in qualsiasi simbolo elettorale della Lega. Dalla Lega filtra il fatto che ci sia «l’idea condivisa nella coalizione di un ruolo nazionale per il futuro di Zaia».
Con un rischio che Meloni vede bene: non è detto che abbia ragione Matteo Renzi quando dice che le regionali finiranno 5 a 1 per il centrosinistra. Ma se così fosse, il paradosso sarebbe evidente: l’unica Regione in cui il centrodestra vince nella tornata 2025 è il Veneto. Da lei ceduto alla Lega. Che peraltro nella Serenissima regione recrimina contro la presunta «arrendevolezza» di Salvini sul tema del terzo mandato dei governatori, «che pagheremo per anni».
Per contro, quello Zaia che ha incarnato il buon governo leghista per decenni, e che ora si vuole invisibile, ricorda che «non è lesa maestà chiedere che la lista ci sia». E avvisa: «Una cosa è certa: i livelli di cosa accadrà in Veneto e di cosa farò io in futuro sono partite distinte».
A rendere gli umori più cupi, il fatto che la visita di ieri pomeriggio del presidente della Conferenza delle Regioni Massimiliano Fedriga alla premier Meloni ha chiarito quel che ormai si sapeva: per un election day non c’è il tempo. E dunque le Regioni andranno al voto ciascuna per conto suo, dal 28 e 29 settembre delle Marche, ufficializzato proprio ieri, al (possibile) 16 novembre del Veneto. Creando, per usare le parole di un leghista, «una nuvola di tensione ininterrotta che al centrodestra non farà affatto bene. Sperando che si sia dissolta per la tornata elettorale della primavera 2026».