la Repubblica, 20 luglio 2025
Mika: "Sono un nomade che si muove su un camion. Mia madre? Ha girato il mondo con me, ora non c’è più e mi manca"
Nomade felice, per vocazione. «Sono 22 anni che mi muovo così», spiega Mika, in viaggio in Francia: «faccio i concerti e su un camion c’è lo studio mobile, così posso comporre e registrare». Arriva in Italia per quattro live: sabato 19 luglio si esibirà a Umbria jazz, il 20 ai Laghi di Fusine a Tarvisio per i trent’anni del No Borders Music Festival, il 22 al Castello Carrarese dell’Este Music Festival (Padova) e il 24 a Gardone Riviera al Festival del Vittoriale Tener-a-mente. Tornerà nel 2026 con lo Spinning Out Tour, la tournée più grande mai fatta in Europa: il 2 marzo all’Unipol Arena di Bologna e il 4 marzo alle Officine Grandi Riparazioni a Torino. Curiosità, studi classici e glam rock, Michael Holbrook Penniman Jr., 41 anni, in arte Mika, musicista, ex giudice di X Factor, conduttore di Stasera a casa Mika, di Eurovision song contest, dell’ultima cerimonia dei David di Donatello, è un grande showman che sul palco si è sempre sentito libero. «Registro in Spagna, faccio cose diverse. Mi piace lavorare d’estate quando sono tutti in vacanza. Non so stare senza fare niente. La gente si rilassa, noi musicisti facciamo l’opposto: siamo come le persone che lavorano negli alberghi e nei ristoranti».
Il legame con l’Italia?
«È strettissimo, il mio punto di ancoraggio dentro l’Europa. Sono libanese americano inglese e una punta francese, un essere più complesso di un passaporto. La considero la mia ricchezza».
Cosa rappresenta Umbria jazz?
«È la quarta volta che vado, credo di essere l’unico artista non jazz ad aver partecipato così tante volte. Ricordo quando si esibirono Lady Gaga con Tony Bennett, grande crooner che c’entra con il jazz».
Lei esplora?
«Io confluisco in vari generi musicali: mi sono formato a otto anni con la classica, ho l’ossessione per il jazz, amo la musica etnica, l’elettronica e la dance. Contaminare per me è importante».
Aveva detto che compiuti i 40 anni non si sarebbe più fermato, è stato di parola.
«Sento l’urgenza di nuovi colori creativi, non esistono i confini culturali, esiste il mix. Quando ero al conservatorio, al Royal college of music, a Londra, e studiavo opera e classica, dicevano che ero troppo contaminato dalla musica “non classica”. Ma quando mi presentavo nei locali a Camden mi giudicavano “troppo classico”».
È stata dura?
«Provavo una frustrazione terribile che mi ha portato a cercare i miei colori. La stampa inglese è stata violenta con me. Non mi sono fermato, ho cercato il mio stile».
Come ci si sente a essere cittadino del mondo, in un mondo in guerra?
«Nella mia vita, essendo metà libanese, c’è sempre stata in sottofondo la guerra. Da piccolo, durante la guerra del Golfo, mio padre fu preso in ostaggio. Anche se eravamo a Parigi, c’era la guerra. Un pensiero presente. Essere cittadino del mondo in un mondo diviso è ancora più importante. Isolarsi e alzare i muri è l’opposto di quello che si deve fare: più sono alti, più si vivono momenti storici scuri. Quando cadono o si abbassano si vivono momenti di luce, i più belli, con le idee che viaggiano».
Pensa che si potrebbe rifare un Live Aid?
«Non so se potrebbe funzionare nella stessa maniera di prima, viviamo un momento un po’ diverso non è molto paragonabile. Io cinque anni fa avevo fatto I love Beirut, un concerto benefico trasmesso in streaming che era un po’ un’evoluzione. Grazie a Internet tutti collegati, la televisione in frammenti. Ma forse tornerà il momento per un grande evento mondiale, in uno stadio».
Ha paura dell’America di Trump?
«No, perché Trump non è il proprietario dell’America. Io non sono trumpista. Essendo anche americano, so che lui è il mio presidente, ma l’America non è sua. Non si devono sottostimare gli americani e le proprie idee, perché rispondono. Però ho paura della destabilizzazione che Trump potrebbe provocare a livello globale, dell’accelerazione di una postura più offensiva. Questo vuol dire che l’Europa deve svegliarsi e riunirsi. Non si deve avere paura dell’America di Trump, ma della filosofia trumpiana e della sua idea di capitalismo estremo».
I suoi fratelli lavorano con lei?
«Hanno lavorato per lungo tempo con me e con mamma, che si è sacrificata come tante mamme. Negli ultimi 15 anni siamo stati in tutto il mondo, è stato bello. Ora che lei non c’è più, i miei fratelli non riescono a seguirmi e a mettere in sospensione la loro vita come faceva mia madre. Ma sono molto fortunato che il mio compagno lo faccia: a modo suo ha seguito questo circo. Sa che non è un’attività, è la mia identità».
Come vive la popolarità?
«Rimango curioso, c’è tanta gioia nell’andare a fare la spesa al supermercato. Sono fortunato, posso camminare per strada, la gente mi dice “ciao” e mi lascia in pace. Anche io faccio lo switch: non impongo il personaggio del palco quando scelgo i pomodori».
Il giudizio degli altri crea stress?
«No. Basta avere il coraggio di rispondere, quando è necessario».
Che rapporto ha con i social?
«Ci sono cresciuto ma non condivido troppo della mia vita intima. Se hai il coraggio di dire qualcosa sui social, devi avere il coraggio di dirla ad alta voce, nella vita reale. Se non ce l’hai, vivi una vita finta. Il bullismo, fisico e online, non è accettabile. Si deve uscire, vivere, confrontarsi, avere un legame con il mondo. Lo scambio è tutto: ho lavorato in prima persona nei Community center».
Racconti.
«Sono ossessionato dal lavoro dei centri: soprattutto ora che gli investimenti stanno sparendo, vanno supportati. Aiutano chi vive nelle zone economicamente più svantaggiate. Ho fatto per la tv inglese un bel programma, The piano, prima con Lang Lang, poi con il jazzista Jon Batiste. È un po’ l’anti X Factor. Persone che vengono da quartieri problematici possono esibirsi e suonano Chopin alla loro maniera, hanno imparato in un Community center. Quando l’arte e la musica sono connesse alla vita, l’emozione è potente».