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 2025  luglio 20 Domenica calendario

Valentina Alferj: «Camilleri scriveva i gialli di Montalbano usando un sistema matematico. Che ansia quando mi diceva: finisci tu il capitolo»

Valentina Alferj, 16 anni passati nello studio di Andrea Camilleri, oggi ha una sua agenzia letteraria, e ha appena concluso la prima edizione del festival di Teatro della Biennale di Venezia accanto a Willem Dafoe.
Andrea Camilleri nasceva cent’anni fa. Qual è l’ultimo ricordo che ha di lui?
«Lo salutai al telefono il giorno prima che perdesse conoscenza. Ero a Ischia a festeggiare il compleanno di una mia carissima amica e stavamo rientrando a Napoli in barca. Andrea mi disse: sarà un viaggio bellissimo. Ecco, ho preso questo ultimo saluto come una raccomandazione di vita. Da quando non c’è più, ho cercato di celebrare a modo mio l’esperienza umana e lavorativa accanto a lui, ricordandomi le sue parole, il suo impegno, la sua visione».
In una delle ultime interviste, Camilleri racconta a Domenico Iannaccone che è stato grazie a lei se ha continuato a scrivere. Come è stato possibile? Andrea Camilleri parla di un miracolo, una specie di osmosi.
«Penso che sia stato possibile per diversi motivi. Una frequentazione così assidua e costante per tantissimi anni mi ha permesso, chiaramente con il suo accordo, di entrare piano piano ma in modo molto profondo nella sua postura di scrittore. Così abbiamo scritto tre romanzi di Montalbano».
Dove vi siete conosciuti?
«Ho incontrato Camilleri nel 2003, al Festival di Massenzio. Collaboravo con l’organizzazione, quel giorno fui chiamata all’ultimo momento perché c’era troppa gente e avevano bisogno di un aiuto. Lo conobbi e ci restammo molto simpatici. Il giorno dopo Camilleri chiamò gli uffici per chiedere il mio numero, mi telefonò e mi disse: “Hai degli occhi intelligenti, mi piacerebbe lavorare con te”».
Qual era il suo lavoro?
«Nei primi anni di collaborazione, soprattutto verso l’esterno: il rapporto con i lettori, con la stampa e gli eventi, con gli editori. Poi sono entrata in modo più profondo nella sua scrittura, nella costruzione dei suoi libri. Camilleri ha sempre affermato di essere un impiegato della scrittura, con una forte vocazione di contastorie. Era un fenomeno a raccontare storie, anche quelle minime».
Come funzionava?
«Magari arrivavo in studio e gli dicevo: “Sai, stamattina i miei figli, Andrea e Gilda, non sono andati a scuola perché avevano la febbre”. Finito. Dopo un po’, se qualcuno arrivava in stanza, Camilleri partiva: “Sai che è successo stamattina? I figli di Valentina si sono svegliati presto, avevano gli occhi lucidi e un gran caldo. Si sono guardati tra di loro e quatti quatti, senza svegliare la mamma, sono andati in bagno a cercare il termometro. Andrea, felice, ha visto che aveva la febbre a 38, ha passato il termometro, senza abbassarlo, alla sorella, e…miracolo! anche lei aveva la febbre a 38. Si sono quindi infilati nel lettone di Valentina e hanno iniziato a leggere a due voci una storia alla mamma…”. Insomma, da uno spunto ordinario Camilleri raccontava sempre una storia straordinaria».
Come nascevano i suoi libri?
«Lui stesso diceva che ogni suo libro non nasceva da un’invenzione ma da un’occasione reale. La sua fantasia però coglieva i dettagli, li ampliava, li lasciava decollare e poi li accompagnava nel volo. Ho avuto una grande opportunità nel poter stare accanto così a lungo a un’intelligenza così curiosa, così vicina alla vita. Una fortuna che cerco di ricordare e celebrare ogni giorno».
Com’era il vostro metodo di scrittura?
«È stata una questione di amicizia, di fiducia. La cura del nostro rapporto umano e lavorativo mi ha permesso di avere il coraggio, quando è arrivata la cecità e quindi la sua impossibilità a lavorare, di dirgli: “Dai, prova a dettarmi, proviamo a scrivere insieme”. Sicuramente la mia non ambizione di scrittrice mi ha permesso di essere un tubo catodico tra Camilleri e la pagina bianca. E quando abbiamo capito che il lavoro a due funzionava, mi ha chiesto di portargli storie. Nei romanzi di Montalbano che abbiamo scritto insieme, ci sono i primi problemi scolastici che affrontava mio figlio, il commissario si innamora di Antonia che è la mia migliore amica…».
Che ricordo ha di quelle giornate?
«È stato semplice e magico. Semplice perché negli anni avevo studiato e imparato la sua lingua, il vigatese…».
In che modo?
«L’ho imparato leggendo e ascoltando. Essendo una lingua in progress, che cambia a seconda di sonorità e necessità di scrittura, ho potuto seguirne l’evoluzione e capire come e quando Camilleri utilizzava dati termini. Per quanto riguarda la stesura dei gialli, nello specifico Montalbano, il racconto del commissario abita un mondo preciso, che sta in una misura quasi matematica. Ogni libro è composto da un numero di capitoli, sempre lo stesso; ognuno di questi capitoli ha un tot numero di pagine; ogni pagina ha un numero preciso di righe che corrisponde alla pagina pensata da Camilleri, con un dato font e una data grandezza di font».
Che significa?
«Che il mondo di Montalbano rispetta una gabbia narrativa. Il commissario si muove e pensa in un modo molto esatto, scandito da gesti e movimenti precisi. Il coro: la squadra di polizia, Livia, Adelina, Pasquano… tutti si muovono e hanno un rapporto con il protagonista che sta dentro una regola aurea. Camilleri teneva le redini di tutto, anche da cieco, si regolava con il respiro della scrittura e quando mi chiedeva: “Siamo a riga 15, vero?”. La risposta era quasi sempre sì. La sua maestria nel maneggiare il racconto mi ha permesso di dedurne le leggi e avvicinarmi alla sua scrittura in modo protetto».
Una factory. O, all’italiana, una bottega.
«Sì. Avevo capito come “dipingeva”, come mischiava i colori, come dava le pennellate, quanto tempo il colore ci metteva per seccarsi. Ricordo con terrore le prime volte che Camilleri si alzava dalla scrivania e mi diceva, “torno tra poco, finisci il capitolo”. Ma dopo poco tempo, con grande felicità, ho capito che mi stava insegnando il mestiere, mi aveva allenata a potergli essere d’aiuto. Negli ultimi anni prendevo appunti sulla sua scrittura. Gli facevo domande per capire come era arrivato da un punto A a un punto B della sua narrativa, come si era costruita la sua biografia di scrittore. Questi appunti si sono poi trasformati in un libro che abbiamo scritto prima della sua morte e che spero possa essere presto pubblicato».
Ora è uscito un suo racconto con Antonio Manzini.
«Per molto tempo ho pensato che la mia possibilità di scrivere fosse solo legata all’idea della scrittura come “servizio”. Da poco invece è cambiato il mio rapporto con la creatività, ho un testo su cui lavoro e magari un giorno mi piacerebbe pubblicarlo. Il racconto con Manzini invece nasce dalla sua gentile richiesta di “tradurgli” appunto i dialoghi di Montalbano in vigatese».
Cosa le manca di più di lui?
«Non so se dire che Camilleri è morto solo da sei anni, o già da sei anni. Oltre all’amico, mi manca molto il suo senso di responsabilità civile. In questi anni di pandemia e di guerre mi sono ritrovata tante volte a pensare cosa avrebbe detto lui. Vorrei solo ricordare quanto fosse importante per un uomo nato nel 1925 la parola pace e che ruolo fondamentale abbia avuto per lui l’Europa. Camilleri ricordava che il suo paltò era europeo; poi, certo, gli indumenti intimi erano siciliani…».
Camilleri era uno scrittore politico?
«Sì. Sentiva la responsabilità umana e sociale del suo ruolo di autore e non perdeva occasione per dare un peso civile a quello che diceva. La sua intelligenza era supportata da un fisico fuori dal comune, che aggiungeva alle sue parole un peso specifico. La sua voce, il suo sguardo, i gesti delle mani avevano una caratura monumentale: non si poteva non ascoltarlo. Prima del suono della voce arrivavano i suoi silenzi, le sue pause. Ha sempre affermato il valore della parola: “Le parole sono pietre”. Per questo le costruiva e le saggiava con il corpo e con la voce. Era cresciuto a suon di parole poetiche prima, poi con quelle della radio, del teatro, infine con quelle della letteratura».
Cosa le è rimasto dei suoi anni in bottega?
«Molto. Quando ho conosciuto Camilleri venivo dal teatro; lui mi ha dirottato verso l’editoria. Ho avuto con Barbara Frandino ed Elisa d’Angelo una società dove abbiamo prodotto Le Nuove interviste impossibili e le Storie d’Italia, il racconto dei 150 anni fatto da scrittrici e scrittori. Poi grazie all’incontro con Antonio Manzini ho deciso di aprire un’agenzia letteraria. Oggi lavorano con me Lorenza Ventrone e Carmela Fabbricatore e la mia agenzia mi somiglia molto. Camilleri mi ha fatto anche questo regalo: mi ha insegnato che la peculiarità umana delle persone con cui lavoriamo è più importante di qualsiasi successo».
E l’incontro con Willem Dafoe?
«Anche qui vedo un fil rouge che lega tutto. Tra i vari scrittori con cui lavoro c’è Pietrangelo Buttafuoco, una delle persone più intelligenti e libere che abbia mai conosciuto. Buttafuoco ha chiesto a Dafoe di essere il direttore artistico del Festival di Teatro. Willem sapeva dei miei trascorsi teatrali e mi ha chiesto di collaborare con lui. E uno dei lavori più belli di questa prima edizione di Biennale Teatro è stato il Pinocchio di Davide Iodice, anche lui allievo di Camilleri all’Accademia. Mi piace vedere come tutti i puntini si sono uniti; e dal disegno che ne esce fuori intravedo il sorriso di Andrea Camilleri».