la Repubblica, 19 luglio 2025
Intervista a Fabio Caressa
Fabio Caressa, com’era da ragazzo?
«Abbastanza timido, un po’ complessato. Con le ragazze un disastro».
Davvero?
«Mi sentivo un po’ diverso, assorbito dalle mie curiosità. E poi tendevo a essere competitivo, volevo prendere il massimo, il che non ti rende sempre simpatico».
Come andava a scuola?
«Ho preso dieci alle elementari, ottimo alle medie, 60/60 al liceo classico Lucrezio Caro, 110 ma senza lode alla Luiss, scienze politiche”.
Un primo della classe.
«Mio fratello si è laureato con lode, il che mi rode ancora».
Non ama farsi trovare impreparato?
«Mi angoscia il solo pensiero».
Sul lavoro?
«Qualsiasi cosa faccia. Da ragazzo, prima delle interrogazioni, provavo le domande davanti allo specchio».
In che famiglia è cresciuto?
«Borghese. Abitavamo in via Guido Reni, al Flaminio, a Roma».
Vicinissimo all’Olimpico.
«Dal balcone di casa potevamo scorgere il tabellone della curva Nord che segnava il risultato, sapevamo dei gol prima diTutto il calcio minuto per minuto che trasmetteva soltanto i secondi tempi».
A che età inizia a fare il giornalista sportivo?
«A 19 anni a Teleroma 56».
Come ci arriva?
«Mio padre vide suTeleroma 56 la pubblicità del primo corso di giornalismo Michele Plastino, Il Piccolo Gruppo, e m’iscrisse».
Fu assunto?
«Alla fine del corso Plastino mi disse che aveva avuto una visione: ovvero che un giorno avrei fatto una trasmissione la domenica sera che non c’era ancora».
Il Club di Sky.
(Ride). «Mi affidò la conduzione di
Goldmania, una trasmissione suCanale 66,la sorella minore diTeleroma 56. Non ci vedeva nessuno».
Ricorda la prima telecronaca?
«Fu una radiocronaca, Lazio-Cesena, aprile 1987. All’epoca le private erano abusive, a me mi davano 50mila lire da consegnare al tecnico della Sip che di nascosto ci apriva una linea telefonica».
Era illegale?
«Totalmente. Al massimo avremmo potuto fare tre minuti di cronaca».
Come arriva a Sky?
«Allora era Telepiù. Grazie a Sandro Piccinini, con cui avevo lavorato a Teleroma 56 e al film ufficiale sul Mondiale di Italia 90, e che reputo uno dei miei maestri, l’altro è Plastino».
Quando approda a Milano?
«Il 19 agosto 1991, in tempo per l’ultima Milano da bere. Montai sulla mia Tipo, feci un colloquio con Massimo Perrone e poi mi presentai al direttore Rino Tommasi con un pacco di cassette Vhs».
Quanti anni aveva?
«Ventiquattro. Andai in onda con una bic. Tommasi mi disse: “Sei bravo, ma la prossima volta portati una bella penna”».
Qual è la paura più grande per un telecronista?
«Arrivare in ritardo. Io arrivo allo stadio sempre due ore prima. Solo una volta sono arrivato a ridosso».
Quando?
«Per un Milan-Barcellona. Dovevo commentarla con Carlo Ancelotti, che mi disse: “Ti vengo a prendere alle 18,30”. “È tardi”, risposi. “No, no, dai che ce la facciamo”, ha ribattuto Carlo con la sua solita flemma».
E poi?
«Poi sono le 18, 35 e di Carlo non c’è traccia. Io friggo di ansia. Poi arriva, sereno come sempre, e naturalmente sulla tangenziale c’è un traffico spaventoso, io sono fuori di me dall’agitazione, e quando siamo a 700 metri da San Siro salto dalla macchina e corro come un pazzo verso lo stadio. Arrivo tutto sudato, mi cambio la camicia, e mi metto in postazione giusto cinque minuti prima dell’inizio…».
E Ancelotti?
«Due minuti dopo mi sento battere sulle spalle: “Sei un pirla, se rimanevi con me ti prendevi pure il caffè col presidente del Barcellona…».
Che qualità servono per una buona telecronaca?
«Un’attenzione feroce. Hai quattro persone che ti parlano in cuffia…».
Quattro?
«I bordocampisti, quelli della regia. La telecronaca è un grande lavoro di squadra. Io studio anche 45 ore per preparare una partita».
Quarantacinque ore?
«Non meno di sei ore al giorno, per una settimana. Ho il più grande archivio sul calcio europeo».
È vero che analizza pure i referti medici?
«Per forza. Spesso sui giornali non viene specificato in quale gamba si è infortunato un giocatore».
Lei è molto inquieto?
«Non sono uno tranquillo. Ci sto lavorando, sono in terapia da due anni. Lo dico con orgoglio perché quelli della mia generazione sentono ancora lo stigma dell’analisi…».
Non si imparano un sacco di cose dallo psicologo?
«Appunto. Io ci sono andato prima di Pechino Express perché volevo essere certo, in quella circostanza un po’ stressante, di creare una relazione efficace con mia figlia, con tutti i miei figli in realtà».
Dorme poco?
«Adesso è un periodo che ho preso ad andare a letto presto, prima stavo sveglio fino alle due, le tre...».
Beh, lei è svincolato dalla routine.
«L’ho dovuta subire quando ho fatto il direttore diSky Sport. Un’esperienza bellissima, ma non la rifarei più».
È dura fare il direttore?
«Non c’erano orari. Poi un giorno mio figlio ha scritto in un tema che io non giocavo mai con lui. Lì ho deciso di mollare».
Quanti figli ha?
«Tre. Matilde, 23 anni, Eleonora, 21, Diego, 16».
Con Benedetta Parodi siete sposati da 26 anni.
«Non ci deve essere gelosia, sennò sei morto. Poi rispetto dei modi e dei tempi dell’altro. Però alla base ci dev’essere una quasi totale comunanza di valori, i fondamentali devono essere gli stessi».
E quali sono?
«Allora, direi famiglia non intesa come famiglia tradizionale, ma gruppo di persone che si vogliono bene».
Cosa l’ha colpita quando l’ha conosciuta?
«Aveva una sorta di aura di luce bianca che la circonda, una cosa che andava al di là del fatto che fosse bella, intelligente. In autunno lavoreremo finalmente insieme».
Cioè?
«Un format su Netflix, Love is blind, su coppie che s’incontrano alla cieca».
Perché ha fatto, per Sky, il reality Money Road?
«Per fame di conoscenza. E perché avevo capito subito che era un’idea diversa dalle altre. Mi sono commosso anche. Ultimamente mi commuovo spesso».
Adani le ha dato del fariseo.
«Non mi scuce un baffo».