Specchio, 20 luglio 2025
"Nonno Francis mi fece guidare su una strada di montagna tra fango e burroni Così imparai cosa è il coraggio"
Un velo sottile di malinconia attraversa lo sguardo di Gia Coppola e avvolge le atmosfere dei suoi film, da Palo Alto all’ultimo, The last show-girl, protagonista Pamela Anderson. Essere nata e cresciuta in una grande dinastia di cinema, al centro di un intreccio di parentele tutte avvitate intorno al grande schermo, non è stata certo garanzia di felicità. La vita riserva sempre le sue trappole. A lei, apparsa per la prima volta, piccolissima, nell’episodio La vita senza Zoe girato dal nonno Francis Ford per il film collettivo New York Stories, è capitato di non aver potuto conoscere suo papà, Giancarlo, morto a 22 anni, in un incidente nautico, prima che lei nascesse: «Non sono una persona triste – dice con un accenno di sorriso –, ma è vero che nelle mie opere c’è un elemento che ritorna, parlano spesso di amori non corrisposti o di cose “fuori posto”. La malinconia è un sentimento universale in cui ognuno si riconosce e per questo mi piace affrontarlo». Al “Filming Italy Sardegna Festival” Gia Coppola, cresciuta con la madre Jacqui de la Fontaine e con il padre acquisito, Peter Getty, ha tenuto una masterclass e ha ricevuto il “Women Power Excellence Award”, visto che ha ormai intrapreso, con passo deciso, la strada del cinema.
Da una parte sembra una scelta scontata, dall’altra pericolosa, perché il suo è un cognome pesante. Come ha iniziato?
«Ho sempre amato diverse forme d’arte, ma non ce n’era una in cui mi sentivo particolarmente brava. Non prendevo buoni voti a scuola. Non mi sentivo in grado di dipingere. Ero troppo timida per recitare a teatro. E quando ho preso in mano una macchina fotografica mi sono sentita molto a mio agio. Avevo finalmente trovato una maniera per osservare il mondo, nascondendomi dietro l’obiettivo. Mi sono iscritta al Bard College di New York, ho studiato con un professore, Stephen Shore, che mi ha fatto capire una cosa importante e cioè che tutto può essere arte, un libro che riesce ad appassionarti, un piatto da cucinare, una foto messa vendita su Ebay… da allora ho sentito che potevo fidarmi di me stessa, mettermi alla prova, il cinema mi è sembrato come una naturale estensione della fotografia, con una caratteristica in più, la possibilità di lavorare insieme a tante altre persone».
Non ha mai avuto paura che qualcuno dicesse cose tipo «oddio un’altra Coppola che fa la regista»?
«No, non ho avvertito una particolare pressione, nemmeno quando ho fatto il mio primo lungometraggio “Palo Alto”. Era tutto molto intimo, ho girato con amici e altri studenti, senza pormi il problema di dove il film sarebbe stato presentato, di chi l’avrebbe visto, insomma, senza nessuna aspettativa. Volevo solo creare qualcosa, con la massima libertà. Anche adesso cerco di mantenere lo stesso spirito».
La sua famiglia è italo-americana, suo nonno parla spesso di Bernalda, la città delle origini, in provincia di Matera. Ci è mai stata?
«Sì, certo. Adesso sto per andare proprio lì. Non ci sono andata per un po’, ma l’Italia fa parte delle mie radici, sfortunatamente non parlo la vostra lingua, ma mi piace molto e vorrei studiarla».
Qual è il consiglio più importante che ha ricevuto da suo nonno Francis Ford Coppola?
«C’è un episodio che mi è rimasto molto impresso. Stavamo rientrando dalle riprese su un set, mio nonno mi chiese di fargli da autista, la strada era tortuosa, piena di fango, saliva su per le montagne. Ero tesissima, lui continuava a scherzare, mi diceva “pensa se adesso salta fuori un animale e ci sbarra la strada… tu che faresti? “. Alla fine siamo arrivati a casa sani e salvi, ma la lezione l’ho imparata. Mio nonno voleva farmi capire che non bisogna preoccuparsi fino a che le cose non accadono realmente, insomma che bisogna essere coraggiosi, capaci di confrontarsi con le situazioni in modo concreto. Stare accanto a mio nonno è sempre un modo per imparare un sacco di cose».
È tra i suoi registi di riferimento?
«Direi che mi ritrovo di più nel mondo di John Cassavetes, il suo tipo di ispirazione mi sembra più vicino al mio, molto attento all’interiorità dei personaggi. Ma amo anche Jean-Luc Godard e Paul Thomas Anderson. E poi sono abituata, più che altro, ad arrivare ai soggetti dei film attraverso la lettura di libri e giornali, e la visione di documentari».
Sofia Coppola è sua zia, che tipo di rapporto avete?
«È una zia molto “cool”, la più “figa” che avessi mai sperato di avere. Ha fatto film pazzeschi, per esempio Il giardino delle vergini suicide, capaci di risuonare nell’animo di tantissime ragazze, e anche nel mio. Zia Sofia riesce sempre ad avere un impatto forte, a trovare la chiave per raccontare storie che le permettono di essere fedele a se stessa. È una donna capace di grazia e di stile, per me è una fonte di ispirazione, anche se io ho la mia, e cerco di conservarla».
Finalmente il numero delle donne dietro la macchina da presa sta aumentando. Secondo lei siamo a buon punto?
«Siamo sicuramente sulla buona strada, ma io continuo a dire che, anche se facciamo un sacco di progressi, la parità con i registi maschi è ancora lontana. Soprattutto per quello che riguarda la ricerca dei finanziamenti necessari per girare. Per gli uomini è ancora molto più facile che per noi».
The Last Showgirl, è girato a Las vegas, cosa rappresenta per lei?
«Las Vegas è una città unica, che io adoro. È piena di magia e tristezza, ma in molti modi rappresenta l’America. È nostalgica, ma allo stesso tempo no… Perché distrugge tutto. Lì non esiste nulla che risalga a prima del 1980. E per la mia protagonista è brillante, luccicante. È un posto dove i sogni possono diventare realtà, ma è anche un luogo che non ti restituisce l’amore».
Sta preparando un nuovo film?
«In America The Last show-girl è uscito nello scorso gennaio, l’avevo girato nel 2024 e, nel frattempo, ho anche avuto un figlio. Adesso ho voglia di prendermi il mio tempo per fermarmi e pensare alla prossima storia, senza star dietro alle logiche del mercato».
Come vede il futuro del cinema?
«Mi piacerebbe che ci fosse una maggiore varietà nelle storie raccontate, gli studios controllano ancora tutto, oggi anche con l’aiuto degli algoritmi. Io, invece, credo nell’autonomia, e vorrei che i giovani cineasti riuscissero a mantenere intatta la loro libertà creativa».
Girerebbe una serie?
«Non sono contraria alle serie, ma ritengo che il mio cervello sia più adatto ai film, mi ritrovo nel modello narrativo che prevede un inizio e una fine. In questo momento sto leggendo una biografia su Cornelius Vanderbilt, penso che potrebbe venirne fuori una serie bellissima. Non so se sarei capace di farla, ma di sicuro mi piacerebbe molto vederla»