Avvenire, 20 luglio 2025
La “guerra dei droni” nel Sahel sta cambiando faccia al jihad
Poliedrici, versatili e tremendamente letali: conquistano l’Africa i droni, dopo aver rivoluzionato tattiche e dottrine dei campi di battaglia del nord del pianeta. Onnipresenti e democratici, si macchiano di abusi e crimini di guerra, documentati fra gli altri in Etiopia, Sudan, Mali e Burkina Faso. Paesi nei quali, secondo l’ultimo rapporto del Armed Conflict Location and Event Data sono morti, solo a maggio, 850 civili. Non risparmiano ospedali, mercati e nemmeno funerali. Ma sono diventati imprescindibili e a portata di più tasche: quelli governativi sorvegliano confini, assembramenti, manifestazioni pubbliche e attività terroristiche, decapitandone leadership e monitorando aree critiche, a caccia di veicoli, materiali, depositi di armi e flussi illeciti. Quelli usatoi dai jihadisti fanno intelligence e cominciano a combattere, talvolta guidati da comuni smartphone, armati con ordigni rudimentali e mortai. Sono personalizzabili con la stampa tridimensionale. Racconta il Centro africano di studi strategici che, l’anno scorso, 484 bombardamenti di droni hanno coinvolto 13 Paesi africani: pesante il bilancio, pari a 1.176 morti, più di quattro quinti dei quali in Sudan e nel Sahel. La diplomazia del drone ha diffuso un modello mortifero pan-continentale, attagliato ai conflitti convenzionali, alle guerre asimmetriche, alla controinsurrezione e alle tante insorgenze più o meno abili nel piegare droni commerciali e immersivi a proprio vantaggio, ispirati da quel che fu il Daesh in Siria e in Iraq, e ammaestrati dalle lezioni tragiche della guerra ucraina.
È da un biennio circa che i qaedisti di Jama’at Nusrat al-Islam wal Muslimin ricorrono a droni nel Sahel. Secondo il pensatoio marocchino Pcns, ci sarebbero stati più di 30 attacchi confermati solo in Mali, con un’escalation a partire da marzo scorso. Obiettivi principali sono i centri militari, gli assembramenti di truppe e i materiali, anche in Burkina Faso e Togo, con una geografia espansiva coinvolgente da ultimo Niger e Benin: 41 militari nigerini sono caduti a maggio a Eknewane, colpiti da armi subdole, protagoniste di molti incidenti, nel Liptako-Gourma, nel bacino del lago Ciad, in Somalia, Mozambico, Centrafrica e Congo democratico.
Lo sviluppo tecnologico ha trasformato acciaio volante in apparecchi poli-sensoriali, capaci di coprire un ampio spettro di azioni, facilitare il fluire della battaglia terrestre, permettere di coordinare e pianificare azioni, documentandone l’esecuzione e ritrasmettendone gli esiti vincenti, per far breccia nella psicologia enigmatica degli aspiranti jihadisti. Lo si è visto in Somalia, nel Borno nigeriano e nella Repubblica democratica del Congo, con l’Afd filo-Daesh, ultima adepta del drone, il cui fascino irresistibile ha ammaliato tempo addietro governi ed eserciti regolari. Nell’ultimo ventennio, 31 paesi africani hanno innervato le loro aeronautiche con velivoli a guida remota. Nove sono attuali produttori. Ambascerie commerciali turche fanno la spola dalla madrepatria alle periferie neoimperiali dell’ottomanesimo africano. Con quelli emiratini, cinesi e persiani, i droni Bayraktar hanno cambiato il corso della guerra etiope, sudanese e libica, illudendo di risolvere con la vis militare conflitti atavici e multifattoriali, molto meglio intellegibili con l’intelligence umana e politiche di ampio respiro, vero rimedio all’instabilità endemica. Continuano tuttavia a trionfare nel continente africano. Racconta il magazine Jeune Afrique che fu il primo presidente Deby, dopo la guerra con la Libia e l’insurrezione montante in Ciad, a capire l’importanza di avere un minimo di aviazione e di investirvi, gettando le basi dell’aeronautica ciadiana odierna, molto più che pochi cacciabombardieri inveterati. Nel maggio di due anni fa, l’azienda turca Tusas ha piazzato qui almeno un drone Aksungur, abile in ricognizione e attacco, istoriato di marchingegni della quarta rivoluzione industriale, con suite elettrottica e radar ad apertura sintetica. Fanno gola quei suoi tre piloni subalari, nerboruti abbastanza da caricare 750 kg di armi, fra bombe a guida laser, razzi e varianti guidate. Promette dodici ore di volo ininterrotto il drone turco, a prescindere dalla luce o dal buio. Serve a fare la guerra come il gemello Anka-S e il vendutissimo Tb-2.