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 2025  luglio 20 Domenica calendario

Violenze e schiavitù legalizzate Dentro l’inferno della “kafala”

Nei saloni di bellezza, tra le mura di casa e sulle piattaforme digitali si ripete la stessa retorica disumanizzante, che di lavoratrici domestiche parla non come se fossero persone, ma oggetti. Da scegliere, sostituire, scartare. Dimenticate il termine “assunzioni”, quello che spopola è “acquisto”. Della merce si ragiona in termini di caratteristiche, a cominciare da quelle etniche: «Le etiopi sono più energiche, ma le keniote sono più pulite»; «Le senegalesi sono tranquille, anche se non capiscono l’arabo». Ancora, i salari vengono contrattati, come si farebbe per un elettrodomestico o un mobile da arredo al mercato. E non mancano le classiche istruzioni per l’uso, un misto di stigma e sospetto: «Tieni d’occhio quella lì, non lasciarla sola in casa»; «È una ladra, non mostrarle compassione».
Benvenuti in Libano dove, come in buona parte del mondo arabo, il sistema della kafala istituzionalizza la schiavitù. Il datore di lavoro, cioè, che diventa lo sponsor di una lavoratrice domestica straniera consentendole con il contratto anche la permanenza legale nel Paese, della donna assume il controllo totale anche sulla mobilità e sui documenti. In una parola, ne diventa il proprietario, privandola della libertà e dei diritti fondamentali e confinandole in una relazione di dipendenza forzata irreversibile.
Il ruolo delle agenzie
Mary (il nome è di fantasia) aveva solo 19 anni quando lasciò le Filippine per il Libano. Arrivò con l’illusione di un lavoro dignitoso, trovò invece un incubo. Il suo calvario cominciò quando la sua prima datrice di lavoro, dopo averla falsamente accusata di furto, la riportò all’agenzia di reclutamento: «Il titolare mi trattenne in ufficio, poi mi condusse in un presunto hotel. Mi ritrovai in una camera senza cucina, senza servizi. Presto mi fu chiaro che quel posto veniva usato per scopi diversi...». Il titolare si presentò con un’altra giovane, la fece spogliare. Mary, terrorizzata e disgustata, si chiuse in bagno e vi rimase per ore. «Quella volta evitai gli abusi, ma lui non mi lasciò andare e io non avevo un posto dove stare. Mi diceva che poteva essere mio marito, qui in Libano. Cercava il mio consenso. Dopo un po’ mi cedette a un’altra agenzia: lo fece, credo io, perché non aveva ottenuto quello che voleva». Solo dopo mesi Mary fu finalmente affidata a una famiglia che la trattò con rispetto. Oggi parla con fatica, ma con lucidità: «Le agenzie sono mercati di tratta. Molte sfruttano sessualmente le ragazze o ignorano cosa ci succede. E nessuno viene mai punito».
Grace Wimbara, keniota di 45 anni, lavorava senza paga, senza cibo, sotto minaccia. Il suo datore di lavoro le diceva: «Fallo altri sei mesi gratis e ti lasciamo andare». Grace fu molestata ripetutamente dal titolare dell’agenzia “Gabriel Services”, Gabriel Nakhleh, già denunciato da diverse donne per violenze sessuali e mancato pagamento del salario. Fu salvata da un’associazione di diritti civili durante una crisi di salute legata all’asma e più tardi, durante una protesta davanti all’ambasciata keniota, scoprì che l’agenzia agiva illegalmente, detenendo e picchiando alcune lavoratrici nei suoi uffici. Grace ha anche raccontato di aver lavorato per un noto cantante libanese, identificato con le iniziali F.K., senza contratto né salario, sotto falso nome». La moglie del cantante le impediva anche di andare in bagno senza permesso.
I poteri del “padrone”
La kafala rende le lavoratrici prigioniere. Come spiega l’avvocata Mohana Ishaq dell’Ong Kafa, la dipendenza dallo sponsor è totale: «Passaporto, permesso di soggiorno, alloggio, libertà di movimento: tutto è legato al datore di lavoro». Ne derivano abusi costanti e sistematici: turni infiniti, fame, negazione delle cure mediche, violenze sessuali. Le “fughe” diventano l’unico modo per liberarsi, ma vengono criminalizzate. Le lavoratrici vengono accusate di furto, incarcerate o deportate. Nel 2023, nonostante le promesse di Meta di combattere la tratta online, sulle piattaforme continuano a circolare annunci che offrono donne “in vendita”, con commenti come “Prezzo?” o “Quanto al mese?”. Uno studio del 2022 ha rilevato che il 68% delle lavoratrici migranti ha subito molestie o violenze sessuali; il 75% non ha denunciato per mancanza di protezione. I responsabili? Datori di lavoro (70%), tassisti (65%), amici di famiglia (40%), datrici di lavoro donne (25–30%) e persino agenti di sicurezza (15%). Le morti delle donne (un numero che è impossibile conteggiare) vengono archiviate come “suicidi”, anche quando precedute da denunce documen-tate, come nei casi di Emibet Bekele Pero (2014) e Faustina Tai (2020). L’avvocata Ghada Nkoula della Global Legal Action Network conferma: «Nessuna inchiesta è mai stata avviata. Nessuna agenzia è mai stata chiusa, nonostante le prove schiaccianti». Per Farah Abdallah, avvocata della Federazione nazionale dei lavoratori e degli impiegati in Libano, i titolati delle agenzie lavorano come veri e propri «trafficanti di esseri umani» che prosperano grazie alla scarsa supervisione, a processi di reclutamento opachi. E invita a un cambiamento strutturale: trasferire la responsabilità del reclutamento all’Ufficio nazionale per l’impiego, il che permetterebbe una vera supervisione normativa e garantirebbe i diritti dei lavoratori.
A oggi circa 250mila lavoratrici migranti vivono in Libano: per lo più provengono da Etiopia, Filippine e Sri Lanka. Escluse dalla legge sul lavoro, non hanno diritto al salario minimo, ferie o giorni di riposo. Amnesty International e Human Rights Watch hanno condannato il sistema, l’Organizzazione internazionale del lavoro lo identifica come una delle forme più diffuse di lavoro forzato nel mondo arabo.
Il caso di Mirzet Haylo
Una possibile svolta è rappresentata dal caso giudiziario di Mirzet Haylo, una lavoratrice etiope che tra il 2011 e il 2019 ha vissuto in condizioni di schiavitù. È stata lei nel 2020, grazie alla consulenza dell’avvocata Ghada Nkoula, a presentare la prima denuncia a un tribunale libanese contro la kafala. Nella recente udienza del 27 maggio 2025, Mirzet ha anche affrontato il suo ex sponsor. «Se le sue accuse verranno confermate – afferma Nkoula – non porteranno giustizia solo a Mirzet. Potrebbero aprire la strada a processare l’intero sistema per ciò che è realmente: uno strumento di schiavitù e traffico di esseri umani». Tali crimini per altro «rientrano nello jus cogens, norme imperative del diritto internazionale che non possono essere giustificate né ignorate in nessuna circostanza, al pari della tortura e del genocidio. Il caso chiama inoltre in causa lo Stato libanese, che deve rispondere delle sue obbligazioni internazionali nel prevenire e perseguire tali violazioni». Sebbene il verdetto sia ancora in sospeso, il suo impatto sul dibattito pubblico e politico si fa già sentire. La speranza è che possa accendere a tutti i livelli la richiesta di riconoscere la kafala come una forma di schiavitù moderna che necessita urgentemente di essere abolita.