corriere.it, 18 luglio 2025
Avete più di 35 anni? Siete «vecchi» per quelli della Generazione Z
«Vecchio» a 35 anni. Anzi, già «over the hill», cioè oltre il crinale. È questo il verdetto – brutale, spiazzante, ma tutt’altro che aneddotico – emerso da un sondaggio condotto da EduBirdie su un campione di 2.000 persone appartenenti alla Generazione Z e ai giovani millennial. Una ricerca che, tra le pieghe delle sue percentuali, rivela più di una semplice curiosità sociologica: ci racconta di come stia mutando la percezione dell’età e, con essa, il concetto stesso di giovinezza in un tempo dove l’anagrafe conta meno del «vibe», l’estetica meno del codice culturale, e il tempo corre sempre più veloce – soprattutto per chi ne ha ancora tanto davanti.
Il dato chiave, quello che ha fatto il giro del web, è chiaro: per più di un quinto (22%) della Gen Z, l’età in cui si comincia a essere «vecchi» è 35 anni. Un numero che fino a qualche decennio fa sarebbe sembrato surreale, quasi provocatorio. Oggi è semplicemente il riflesso di una percezione generazionale profondamente mutata, che riguarda non solo i segni dell’età, ma anche – e forse soprattutto – i comportamenti, i riferimenti culturali, la padronanza del linguaggio digitale e perfino la postura sociale.
I nuovi confini (labili) della giovinezza
Ma andiamo con ordine. Gen Z, tecnicamente, comprende i nati tra il 1997 e il 2012. I più anziani del gruppo hanno dunque oggi 28 anni. Eppure, il 3% di loro considera già vecchi i ventisettenni. La linea d’ombra, insomma, si abbassa ancora. Un 6% ritiene che l’età della decadenza cominci già a 30 anni. A 35 anni si entra a pieno titolo nel club degli «anta». E da lì in poi, è un crescendo: il 13% indica i 35 come soglia critica, il 26% i 40 anni, il 21% i 50 e il 31% i 60+. A conti fatti, se si uniscono i dati, il 65% dei Gen Z considera vecchio chi ha tra i 35 e i 60 anni. Un paradosso, se pensiamo che questa è l’età in cui oggi si diventa genitori, si consolidano le carriere e si raggiunge, in molti casi, il picco creativo e professionale.
Eppure, non basta. La percezione della giovinezza si è svincolata da elementi biologici o sociali per diventare una forma di appartenenza tribale: sei giovane se conosci i codici, se usi l’ironia dei meme, se comunichi per emoji e reels, se segui le tendenze su TikTok, se parli il gergo del momento. Non è (più) solo questione di rughe o capelli bianchi. È il contesto a definire chi sei – e quanto vali. E se a 35 anni non ti sei ancora sintonizzato con i segnali della cultura Gen Z, sei già fuori tempo massimo.
Le star sotto esame: anche Taylor Swift è «anziana»?
È un meccanismo che nemmeno le celebrità riescono a evitare. Taylor Swift, Emma Watson, Daniel Radcliffe: tutti classe 1989 o giù di lì, dunque trentacinquenni nel 2024. Eppure, secondo il metro Gen Z, già vecchi. Vale anche per icone quarantenni come Katy Perry o LeBron James, che da simboli della contemporaneità rischiano di essere percepiti come archeologia pop. A questo punto, verrebbe da chiedersi quale sia il destino di figure come Madonna, George Clooney o Brad Pitt: per i giovanissimi, probabilmente dei «boomer» senza possibilità di redenzione.
Ma attenzione: l’essere vecchi, per Gen Z, non implica necessariamente l’essere fuori gioco. Il vero discrimine, secondo i dati del sondaggio, è un altro: l’autenticità. Un quarantenne che si comporta come un ventenne, che copia i trend senza capirli, che si appropria del linguaggio giovanile forzandolo, può risultare molto più «cringe» – per usare il loro lessico – di un sessantenne che accetta con grazia il proprio tempo. La chiave, dunque, non è sembrare giovani, ma essere sé stessi. E questo, paradossalmente, è un messaggio meno superficiale di quanto sembri.
Quando finisce il desiderio?
Un altro dato interessante del sondaggio riguarda l’età in cui si smette di essere considerati «desiderabili». Qui, per fortuna, i numeri si fanno più confortanti. Il 44% dei millennial e il 33% della Gen Z ritiene che l’età non incida automaticamente sull’attrattiva personale. In altre parole: non sono le rughe o i capelli grigi a renderti meno interessante, ma piuttosto l’atteggiamento. Tradotto: vestirsi come un adolescente, usare slang fuori contesto, ostentare una vita sessuale esibizionistica può avere un effetto più respingente della semplice età anagrafica. Un altro elemento che segna la differenza tra immagine e sostanza, tra apparenza e autenticità.
È come se la Gen Z dicesse: puoi anche avere 50 anni, ma se ti comporti da adulto consapevole, va bene. Se invece ti travesti da giovane in un mondo che non ti appartiene più, perdi credibilità. In fondo, l’invito è quello di accettare il tempo che passa, ma senza rinunciare alla propria individualità. Non un culto dell’eterna giovinezza, quindi, ma una nuova estetica della coerenza.
Il tempo che si allunga
E qui arriva il paradosso finale. Mentre i giovanissimi abbassano la soglia della vecchiaia a 35 anni, la scienza la sposta sempre più avanti. Secondo uno studio della Humboldt University di Berlino, oggi si considera «vecchiaia» la fase che inizia dopo i 74 anni. E non si tratta solo di percezioni: è cambiato tutto. L’aspettativa di vita è aumentata, le condizioni di salute sono migliorate, e la possibilità di rimanere attivi e produttivi fino a tarda età è oggi una realtà diffusa.
Lo conferma anche Markus Wettstein, autore della ricerca: «Le persone che un tempo venivano considerate anziane oggi non lo sono più. Si è spostata in avanti la percezione dell’invecchiamento perché sono migliorate le condizioni di vita, sia fisiche che sociali». E in effetti: quanti sessantenni oggi corrono le maratone, si reinventano professionisti, esplorano nuove passioni e conducono una vita sentimentale piena?
Generazioni a confronto: uno scontro o un’opportunità?
Il nodo, insomma, non è solo anagrafico. È culturale. La generazione Z, cresciuta nel pieno della rivoluzione digitale, ha una percezione accelerata del tempo. È la generazione del tutto e subito, in cui anche i format si sono ristretti: dai film si è passati alle serie, poi ai mini-video da 60 secondi, e ora ai contenuti effimeri da 10. In questo contesto, anche le tappe della vita si comprimono. Si diventa vecchi prima, si bruciano le esperienze, si cambia identità a ritmo di algoritmo.
I millennial, pur essendo solo di poco più anziani, sono già diversi. Cresciuti tra l’analogico e il digitale, portano dentro un’idea più elastica del tempo, più tollerante verso l’invecchiamento, più indulgente con i percorsi lenti. E forse è proprio questa la sfida del nostro tempo: far dialogare le generazioni, evitando l’arrocco nostalgico dei più grandi e la presunzione votata al presente dei più giovani. In mezzo, c’è una possibilità di alleanza: imparare gli uni dagli altri, costruire linguaggi comuni, valorizzare le differenze come risorsa e non come barriera.