la Repubblica, 18 luglio 2025
C’era una volta un re chiamato castagno che sfamava i poveri
«Il castagno più che un albero è una cultura», scrive Angela Borghesi in un capitolo del suo libro Fior da fiore. Cultura vuol dire un mondo, e quel mondo oggi è scomparso. Il castagno, meraviglioso albero alto, possente e longevo, ancora presente nei nostri boschi in numero ridotto, è un re detronizzato. Come ricorda Giuseppe Barbera, è stato una «pianta a un tempo agraria e forestale». Veniva coltivato perché forniva per sei mesi all’anno l’elemento fondamentale della dieta montanara, la farina di castagne, il pane della povera gente, come ci ricorda Piero Camporesi nei suoi libri. Per non dire del legno, con cui erano costruite le case, e poi la legna per riscaldarsi nei lunghi inverni del passato. Anche i piccoli doni elargiti dal sovrano dei boschi erano preziosi nell’economia delle comunità: cenere per il bucato.
A partire dall’Ottocento con il mutare delle risorse alimentari e il propagarsi delle coltivazioni di cereali, quel mondo ha cominciato adeclinare, fino a che è tramontato. L’emigrazione verso le pianure, e poi in Nord America e in Sudamerica, ha spopolato i paesi dell’Appennino, la colonna vertebrale della Penisola. Così decine di centri abitati d’antica e fiera tradizione sono stati inesorabilmente abbandonati. Un altro e ulteriore colpo l’ha dato negli anni Trenta del Ventesimo secolo la crisi dell’industria del tannino.
Se si vuole capire cosa significava per gli adulti, e anche per i ragazzi, questo albero, diffuso tra i 200 e il 900 metri d’altitudine, bisogna leggere i versi d’un grande poeta, Giovanni Pascoli, in uno dei suoi poemetti: Il vecchio castagno (1904). La voce narrante della poesia si rivolge a una ragazza, Viola, che si preoccupa perché il grande gigante è vecchio e al suo piede è posta l’accetta. Le spiega con sapienza che tutto ricomincerà: dal ceppo dell’albero tagliato nasceranno nuovi polloni.
Quella del castagno era una civiltà che vedeva l’esistenza come un susseguirsi di vita e morte, secondo i cicli stagionali che J.G. Frazer racconta nel suo Il ramo d’oro. La Castanea sativa, nome scientifico, datogli nel 1768 da un botanico scozzese, Philip Miller, appartiene alla famiglia delle fagaceae, come i suoi parenti stretti: faggio e quercia. Un tempo si riteneva che quest’albero provenisse dal bacino sudorientale del Mar Nero, dal Ponto e dal Caucaso; invece probabilmente era già qui, sopravvissuto all’ultima glaciazione del Pleistocene, tra i 110 mila e gli undicimila anni fa. Il freddo l’aveva costretto a rifugiarsi nel Caucaso e nel nord dell’Anatolia. Tuttavia è probabile che qualche castagno sia rimasto nel versante tirrenico dell’Appennino, tra Liguria e Lazio, e forse anche nei Colli Euganei, ai cuipiedi Plinio racconta d’un castagno selvatico innestato con una marza staccata dalla medesima pianta.
La sua diffusione è dunque opera dell’uomo, che l’ha portato là dove ancora non c’era, e innestato per migliorare la qualità dei suoi frutti più grandi, i “marroni”, che gli attuali abitanti delle città e della Pianura conoscono perlopiù sotto forma di caldarroste offerte da venditori ambulanti sotto Natale. I Romani curavano il castagno, e nel Primo secolo d.C. mangiavano le caldarroste, cui attribuivano virtù intestinali. Il suo nome viene però dalla lingua greca, castanea; si pensava infatti che derivasse da una città dell’attuale Turchia, Kastanis. Sembra che la sua domesticazione sia avvenuta in Lidia, territorio dove sorgevano le principali città ioniche. La specie Castanea sativa è solo una delle dodici identificate tra Cina e America. Del suo frutto, che dà nome a un colore, il marrone, e a una sfumatura, il castano, se ne parla nelle Bucoliche di Virgilio.
Lo sforzo intrapreso dai coltivatori, che l’hanno modellato nel corso dei secoli, era quello di produrre una castagna la cui buccia si potesse staccare facilmente; la sua prerogativa è poi quella d’essere custodita nel riccio «foderato d’elegante velluto color crema» (Borghesi), che al momento opportuno cade, si apre e lascia uscire il frutto. Possiede fiori maschili e femminili; i primi sono «riuniti in glomeruli biancastri su lunghi amenti posti all’ascelle delle foglie», mentre i secondi «sono invece singoli e collocati alla base dell’asse fiorifero maschile». La loro fecondazione è anemofila: si affida al vento. La corteccia, poi, si modifica nel tempo: liscia e bruna da giovane, diventa poi grigia. Secondo Jacques Brosse c’è un legame tra le castagne e il mondo dei morti, anche perché le si mangiava, almeno in certe zone della Francia, la sera di Ognissanti.
La raccolta del frutto avviene tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre. Ancora oggi si possono vedere nelle domeniche di questa stagione frotte di persone che, quasi a rinnovare un antico rito muniti di sacchetti di plastica, s’inerpicano lungo le balze delle Prealpi o degli Appennini alla ricerca del “pane di legna”, come lo chiamava Montaigne. Sono ripe e salite dove una volta non cresceva un solo filo d’erba e gli abitanti potevano camminare a piedi nudi, mentre ora prolificano copiosi i rovi. Il povero castagno con le sue belle foglie lanceolate ha subito vari attacchi nel corso dell’ultimo secolo: il cancro corticale, arrivato dall’Oriente, poi in America, sbarcato a Genova nel 1938, e il mal d’inchiostro; ora ne minaccia l’esistenza un imenottero asiatico dal nome lungo e quasi impronunciabile: Dryocosmus kuriphilus Yasumatsu o Cinipide galligeno. Ha molto danneggiato la produzione del suo frutto, così che il celeberrimo marron glacé, invenzione d’un pasticciere francese barocco, François Pierre La Varenne (1667), è diventato costoso. Recede anche la famigliare produzione del “migliaccio di farina dolce volgarmente dettocastagnaccio”, come lo battezza il sommo Pellegrino Artusi fornendone la ricetta. Per motivi fitopatologici esiste anche una qualità di castagno giapponese, Castanea crenata, resistente ai parassiti, per cui è stato innestato in quello tradizionale: il risultato è un albero più piccolo e castagne dal gusto «più piatto» (Barbera). Se Matilde di Canossa, che donava piantine di castagno ai suoi ospiti, potesse tornare oggi, non crederebbe ai propri occhi: la civiltà del castagno s’è estinta.
L’ultimo sfregio glielo darà ora il “Piano strategico nazionale per le aree interne” dell’attuale governo: i paesi montani non “rilanciabili” e “senza prospettive” saranno di fatto abbandonati. Povero vecchio castagno!