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 2025  luglio 18 Venerdì calendario

"Tradito dalla fidanzatina a 15 anni La gelosia? Soffro solo quella retroattiva"

«Non ho mai sofferto di gelosia. Neppure da giovanissimo. Se non – ripensandoci -, forse, di quella retroattiva. E comunque, la mia filosofia è: se qualcosa provi, te la tieni». Gioele Dix riflette su questo sentimento il cui manifestarsi patologico è alla base dello spettacolo che porta in scena il 20 luglio a Cividale del Friuli per il Mittelfest, un reading con accompagnamento musicale incentrato su Sonata a Kreutzer, il romanzo breve di Lev Tolstoj e l’omonima sonata (n. 9 in la maggiore, op. 47) di Ludwig van Beethoven. E cosa c’è di più tabù (e indicibile) della violenza maschile sulle donne, di un femminicidio «giustificato» dalla legge? Di questo parla il romanzo: di un uomo che, durante un lungo viaggio in treno, racconta a uno sconosciuto di avere ucciso la moglie e, seppure reo confesso, di essere stato assolto in nome dell’onore. Le convenzioni di fine 800 lo prevedevano. Sappiamo che anche da noi il delitto d’onore è stato abrogato da poco (1981), ma se la legge è cambiata, la società ancora fatica a condannare. «Inutile sottolineare la grande attualità del testo – esordisce l’attore -. La sonata per piano e violino, un capolavoro assolutamente all’avanguardia ai tempi, tanto da non essere sempre apprezzata come meritava, è stata riadattata per soli archi, e anche del testo ho fatto un adattamento che focalizza sul solo racconto del femminicidio».
L’uxoricida confessa. Ma è davvero pentito come dice, o è una finzione la sua, un po’ come quelli che dopo avere ucciso chiedono strumentalmente scusa?
«Negli anni in cui scrisse la Sonata Tolstoj aveva già avuto la svolta religiosa, era inoltre animato da un profondo senso della giustizia: per questo penso che sia sincero il senso di colpa che attribuisce all’uxoricida, che si duole dell’assoluzione. Mi piace pensare che non se ne libererà mai, che sarà la sua espiazione. Riconosce la propria follia e le sue parole sono senza sconti. La ricostruzione dell’ossessione è dettagliata: l’irrompere della gelosia, la volontà di possesso per una donna per cui (lui stesso lo ammette) non prova più nulla, persino del tradimento c’è solo il sospetto. Ma tant’è: basta una scintilla – gli occhi della moglie che esegue con un altro uomo la Sonata galeotta – per scatenare la violenza. Tolstoj è maestro nello scoperchiare i demoni degli uomini»
E lei, a gelosia, com’è messo?
«In modo democratico e progressista. Trovo che sia un sentimento accettabile all’inizio, se è come una punturina dell’animo, espressione del nostro desiderio dell’altro, ma indifendibile come trascende, la persona sparisce, l’amore muore e resta solo il bisogno di possesso e controllo di una “cosa” (e non uso la parola a caso) che pensavi di possedere e invece non hai. In questo il femminicida di Tolstoj non è diverso, malgrado siano passati 140 anni, da quei giovani (e meno giovani) mostri di cui parlano le cronache. Gli uomini sono lenti, molto lenti, a cambiare. Non le donne... Ma la loro evoluzione non è accettata, ancora di più se taglia fuori l’uomo che pensava di possederle. Se devo ammettere una gelosia (molto moderata), forse è quella retroattiva»
Ovvero?
«Se sei molto giovane e impulsivo può capitare. Ma anche questa me la sono sempre vista tra me e me. Aprivo un bel dibattito interno. Forse dovremmo proporlo anche dopo lo spettacolo? La Sonata apre a molte riflessioni».
Stiamo parlando di qualcosa che ha a che fare con le sue prime esperienze amorose ?
«Be’, non per il primissimo: la cotta dei 13 anni fu un sogno realizzato, dopo che lo avevo lungamente inseguito. Timido in modo quasi patologico, troppo insicuro per dichiararmi alla ragazzina che mi piaceva, scoprii che anche io piacevo a lei: finì con un bacio. È dei 15 anni invece il mio primo amore importante: qui fui tradito per un altro che da tempo vedevo girare intorno alla mia lei. Pensavo fosse solo un amico... Quando seppi (e fui lasciato), ci rimasi malissimo: gelosia retroattiva, appunto, ma soprattutto disperazione. Ricordo un pomeriggio piovoso d’estate: tornai a casa con la faccia bagnata di lacrime e pioggia. E mamma che mi consolava: “Vedrai che se ne affaccerà un’altra”. Penso che quella storia bruciante mi abbia molto condizionato, da allora in poi solo persone con il mio stesso zeitgeist e parità il più possibile, a partire nella convivenza dalle mansioni domestiche»

Altri tempi. Erano gli anni ’70. La cronaca odierna invece è piena di storie di violenza e sopraffazione, di amori tossici, con protagonisti spesso giovanissimi.
«Un passo avanti e tre indietro? Sa cosa mi riempie di stupore e ammirazione? Che ci siano genitori che, colpiti da un dolore tanto grande come l’uccisione di una figlia, possano riuscire a tirare avanti. Me lo chiedo: io come sopravviverei? Una risposta univoca non me la so dare. Capisco chi si chiude nel buio di sé stesso e ammiro chi reagisce, torna a vivere e lotta».
Il 3 gennaio compirà 70 anni. Si sta preparando?
«Numero importante... Medito di rendermi irreperibile per sfuggire alla tentazione delle celebrazioni. Festeggerò guardando avanti, con nuovi progetti: sto scrivendo un nuovo libro cui tengo molto perché diverso da tutto quello che ho fatto finora; sto preparando due regie, quella per il debutto da solo, senza Luca Bizzarri, di Paolo Kessisoglu e quella di Eccoci qui, spettacolo composto da tre atti unici (di Georges Feydeau, di Dorothy Parker e mio) su uomini e donne e i malintesi della vita. Continuerò a portare in giro per la terza stagione Ma per fortuna c’era il Gaber, omaggio a un artista con cui sono cresciuto ma anche un modo indiretto di parlare delle mie passioni, la politica, il teatro, la vita. Insomma, non sento nessun bisogno di fermarmi, certo non per fare bilanci. Poi è vero, la fatica la sento più di prima: ma non quella fisica, quella dei discorsi ripetuti a vuoto, delle cose fatte per fare, anche se non ci si crede davvero».