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 2025  luglio 18 Venerdì calendario

"Jannik amico geniale, non sbaglia mai Freddo? Noi altoatesini siamo educati così"

Certe intese sono così evidenti che hanno persino la capacità di tramandarsi. Tania Cagnotto ha vinto due medaglie olimpiche nei tuffi, una con Francesca Dallapé a Rio de Janeiro, nel 2016. Argento in sincronizzato, con sguardi di complicità non così diversi da quelli che si sono ritrovate in faccia quest’anno, davanti alle figlie che facevano, più o meno, la stessa cosa.
C’è un video con sua figlia Maya, 7 anni, e la figlia di Dallapé, Ludovica, che ha un anno di più. Si lanciano dal trampolino sui materassi come avete fatto voi centinaia di volte. Che effetto le ha fatto?
«Ci siamo emozionate, tutte e due, molto più di quanto mi sarei mai aspettata».
Vi siete riviste in loro?
«No, ci siamo trovate. È stato un momento speciale per noi quattro. Le nostre bimbe si frequentano poco e hanno un rapporto particolare, appena si incontrano, si stringono: il legame è forte ed è bello pensare che dipenda dal fatto che lo hanno un po’ … ereditato».
Maya continua la tradizione di famiglia con i tuffi?
«Non credo. Era entusiasta ma gliel’hanno fatta passare con i continui richiami. “Eh, come la mamma” “Anche tu diventerai campionessa? “, “Il nonno, la mamma e adesso tu”. Si è stufata, a priori. Si è data al tennis, ha provato la pallavolo. Non ha ancora trovato quel che la appassiona, può pure darsi che poi torni indietro. Anche la figlia di Francesca si è presa una pausa. Io di certo non insisto».
Si è data al tennis, sport del momento e Sinner è pure amico di famiglia.
«Strano pensare che sia passato a casa nostra, che si sia tolto le scarpe e messo tranquillo sul divano. Lui è un ragazzo così semplice e carino che non ti fa pesare nulla».
Che cosa ha di speciale?
«La testa. Governa il suo gioco, amministra le proprie risorse, non si sente mai perduto perché spenderebbe energie inutili nella preoccupazione. Le converte sulla ricerca della soluzione. Io l’ho visto sempre fare tutto nel modo giusto: parlare, muoversi, rispondere, comportarsi».
Altoatesini. Qualcuno ha sostenuto pure che Sinner lo sia troppo. Ma esiste una territorialità che vi definisce o è una colossale baggianata?
«Una cosa vera c’è, solo che poi viene spesso male interpretata: la vicinanza tedesca, quel dato che abbiamo, ci rende ligi al lavoro. Non lo siamo tutti, ma è dentro l’educazione ricevuta, nell’approccio. Insieme con la freddezza che ci viene insegnata come valore, ma sono caratteristiche di fondo che si mescolano a mille altre cose e non siamo fatti con lo stampino. Più che altro, siamo un mix di culture e come sempre succede i mix migliorano. O possono migliorare».
Quando Sinner ha cambiato per la seconda volta lo staff, si è parlato di problemi di fiducia. Che idea si è fatta?
«Lui ci tiene tantissimo a proteggere quel che resta del suo privato. È l’aspetto più difficile. Sinner sa che non avrà più la quotidianità di prima: la legittima reazione è chiudersi. Non credo abbia a che fare con il posto dove siamo nati, a quel livello si tende a stringere il cerchio. Rischi grosso se ti circondi di persone sbagliate e forse metti in dubbio tutti. Io non ho mai vissuto la realtà di Sinner, eppure nel mio piccolissimo mi sono ancorata alle radici, agli amici di Bolzano».
È entrata in giunta al Coni, vuole fare politica?
«È stata una strada naturale. La federazione nuoto mi ha chiesto di candidarmi e sono orgogliosa di essere stata eletta. Mi fa piacere poter restituire qualcosa allo sport».
Ha vissuto da atleta il Coni di Malagò, ora si prevede un cambio totale.
«Buonfiglio ha tutti i numeri per essere un ottimo presidente, dobbiamo conoscerci ed è impossibile giudicare adesso. Come persona però mi piace».
Nel frattempo, Kirsty Coventry è diventata la prima donna presidente del Cio.
«Ho pensato “Caspita, che brava”. Giovane e madre con una carica mica da ridere, devi essere portata per arrivare lì e io proprio non mi vedrei».
Come si vede?
«Ero preoccupata di come avrei organizzato le giornate dopo tanti anni di programmi rigorosi invece sto sempre di corsa e meno male continuano a chiamarmi».
Vuol dire che si è fatta un nome quando gareggiava.
«Sì, soprattutto ho lasciato delle emozioni. Quando sono tornata a casa da Londra, dopo i quarti posti ai Giochi, la gente mi salutava e piangeva ed è successo per tanto tempo. Io non ci pensavo più e loro commossi mentre, che so, chiedevano un autografo».
Ai Mondiali di Singapore, che per i tuffi partono il 23 luglio, la nazionale ha delle ambizioni. Si era detto, dopo di lei il vuoto e invece?
«Invece con una base minima riusciamo a stare tra i migliori, il problema è che non stiamo sfruttando la richiesta. Oggi è aumentata rispetto a quando c’ero io. Tante famiglie vorrebbero accompagnare i figli a questo sport e non possono perché in diverse città non esistono piscine».
Chiara Pellacani e Matteo Santoro, tra le punte del movimento, si allenano negli Usa. Esperienza che ha fatto anche lei, a Houston, però è rientrata subito.
«È stato comunque un bell’esperimento. Io stavo meglio tuffisticamente a casa, oggi è più semplice vivere all’estero senza perdere i contatti e i ragazzi fanno bene a provare altre realtà perché laurearsi e fare agonismo da professionisti in Italia è complicato. Dobbiamo copiare dagli americani».
I cinesi sono sempre perfetti?
«Sì, ma sono diventati battibili. Forse perché stanno meglio e hanno altro a cui pensare».
Due medaglie olimpiche, 10 mondiali. Dove le ha messe?
«Sono pessima, stanno appese a due chiodi. Ogni tanto le guardo e penso “serve un posto degno”. Non le sposto mai, probabilmente vanno bene lì».