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 2025  luglio 18 Venerdì calendario

L’ossessione di Orson Welles per Moby Dick

Da quando, poco meno di dieci anni fa, si pensò con la Italo Svevo di dare alle stampe la stramba riduzione teatrale che Orson Welles aveva fatto del Moby Dick di Herman Melville, sono accaduti a quel testo alcuni eventi significativi. Innanzitutto, è stato pubblicato con l’esauriente prefazione di Paolo Mereghetti, che potete leggere anche in questa nuova edizione; poi, nella traduzione di Cristina Viti, è stato portato in scena da Elio De Capitani, regista e interprete del feroce capitano Ahab in Moby Dick alla prova. A metà degli anni Cinquanta Welles concentra il suo interesse sul romanzo di Melville. Pare che gli ci siano voluti ben otto anni per scrivere quest’opera teatrale, la cui stesura lo ha impegnato durante la realizzazione, sia come regista sia come attore, di gran parte dei suoi film del dopoguerra. Va citata innanzitutto la pellicola di John Huston Moby Dick, la balena bianca, nella quale Welles dà vita al personaggio di padre Mapple che sermoneggia dall’alto del pulpito della chiesa dei ramponieri. Il film uscì nelle sale esattamente un anno dopo la prima londinese del testo teatrale al Duke of York’s Theatre. Non so quando il giornaliero del film avesse stabilito le pose di Welles, immagino che dovette essere un pugno di giorni infuocati, visto il carattere del regista e dell’attore, e con ogni probabilità seguirono il debutto dello spettacolo teatrale di Welles a Londra o, almeno, la scrittura del testo. A dar credito a Alessandro Zaccuri (che è scrittore a cui si deve dar credito), il quale curò l’edizione italiana di Verdi ombre, balena bianca di Ray Bradbury (sceneggiatore del film di Huston), la prima londinese s’inserì tra la fine della lavorazione del film e la sua uscita nel giugno 1956. Insomma, permane quel tanto di incertezza cronologica che lascia intendere quanto Welles fosse immerso nell’opera di Melville, che recitasse in un film o che scrivesse un adattamento per il teatro. Nulla ci vieta di credere che, con l’ingaggio di Welles tra i protagonisti della pellicola, l’idea, a lungo accarezzata, di lavorare su Moby Dick abbia ricevuto una spinta decisiva. Sembra che lo stesso Welles avesse vagheggiato una trasposizione cinematografica del capolavoro di Melville, limitandosi poi a interpretare un ruolo denso ma circoscritto nel film di Huston. In realtà, prima di Huston e Welles anche un altro gigante del cinema americano, John Barrymore, era stato conquistato dal soggetto, tanto che aveva vestito i panni di Ahab in due film negli anni Venti e Trenta. Va detto che le riduzioni cinematografiche di quell’epoca richiedevano l’inusitata presenza di una storia d’amore e, dunque, l’altrettanto inusitata partecipazione di una figura femminile in un dramma essenzialmente maschile. Per paradosso, nell’adattamento di Welles il romanzo di Melville s’intreccia con il Re Lear, dove la presenza femminile è dominante: la strampalata compagnia teatrale protagonista di Moby Dick – Rehearsed, mentre nel pomeriggio è impegnata nelle prove della vicenda della balena bianca, si trova a recitare di sera la tragedia shakespeariana. La questione è accennata soltanto – le due vicende non procedono parallele – ma il testo shakespeariano rimane nella mente dello spettatore come un contraltare severo al tono quasi dilettantesco della riduzione wellesiana. Se si volesse fare un paragone tutt’altro che avventato con l’autodistruttiva parabola lavorativa di Welles, dove nulla sembra mai trovare la quiete dell’opera compiuta, si potrebbe pensare all’inganno di Penelope e al sudario di Laerte, che la regina di Itaca tesse di giorno e disfa di notte: i progetti s’interrompono improvvisamente o vengono ripresi disfacendo e ricucendo in maniera a volte goffa quel che è già stato realizzato. E così è anche per Moby Dick, che probabilmente rientrava tra i piani cinematografici del regista e che, dopo essere diventato spettacolo teatrale, fu di nuovo argomento di una pellicola dimenticata e definitivamente perduta. Anche questo Moby Dick – Rehearsed corteggia l’autodistruzione. Accolto con interesse da Kenneth Tynan, uno dei maggiori critici teatrali britannici, lo spettacolo tuttavia non suscitò consensi unanimi. Essenzialmente i motivi di perplessità verterono quasi tutti sulla recitazione debordante di Welles, e non si stenta a credere che l’opportunità di interpretare Ahab finì per accecarlo, mettendo in luce il suo alter ego da animale da palcoscenico. Nonostante l’insuccesso commerciale, nel 1962 ci furono una produzione newyorkese con Rod Steiger nei ruoli principali – l’impresario, padre Mapple e il capitano Achab –, che durò appena tredici sere, e il film di una settantina di minuti che Welles girò durante la rappresentazione londinese e che appunto andò perduto. Si favoleggia che l’unica copia in celluloide finì bruciata in un incendio nella casa di Welles a Londra, appiccato da un Robert Shaw ubriaco a cui era caduto il sigaro dalle labbra. Singolare è il fatto che proprio Shaw fu tra i protagonisti del moderno Moby Dick realizzato da Spielberg con Lo squalo, in cui incarnò la figura ispirata a Ahab, ovvero il cacciatore di squali destinato a soccombere. Andata in fumo l’unica testimonianza filmata, è l’oblio a segnare il destino di questo spettacolo che vive solo attraverso il suo copione. Nel 1986 la Chelsea House Publishers di New York pubblicò Herman Melville’s Moby Dick, una raccolta di interventi di critici e intellettuali anglosassoni sulla balena bianca, con la curatela e l’introduzione di Harold Bloom. Tra gli importanti autori presenti nel saggio, per lo più statunitensi, si annoverano Alfred Kazin, Patrick McGrath, Homer B. Pettey, Fred V. Bernard, Carolyn L. Karcher, David S. Reynolds, Henry Nash Smith, Carolyn Porter, mentre Orson Welles non compare neppure come adattatore teatrale del testo di Melville. È curioso che una delle figure più rappresentative delle arti sceniche americane sia stato ignorato in un volume che testimoniava quanto Moby Dick fosse un testo preminente nella letteratura del suo paese d’origine – del resto, anche il fatto che la prima edizione del romanzo sia stata stampata a Londra rivela che fin dal suo apparire il testo ebbe delle difficoltà a essere accettato in America. Ma questo riflette in un certo senso il destino da esule che Welles dovette subire per quasi tutta la sua carriera.