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 2025  luglio 17 Giovedì calendario

Leandro Castan: «Col tumore al cervello è morta una parte di me. Spalletti mi umiliò. “Il tuo livello è il Frosinone, tu con me non giochi più”»

13 settembre 2014. Empoli-Roma. All’intervallo Leandro Castan esce. Non tornerà per molto tempo. La sua vita è cambiata quel giorno?
«In quei 15’ è finita la mia carriera. È morta una parte di me. Durante il riscaldamento ho sentito un fastidio al flessore. Al termine del primo tempo Maicon ha avvisato Rudi Garcia: “Castan non sta bene”. Sono stato sostituito. Sono uscito dal campo, per sempre. Tornato a casa, ho iniziato a non stare bene. La mattina successiva la situazione è peggiorata, mi girava la testa. Ho pensato di morire».
È andato in ospedale?
«Subito. Dopo una risonanza magnetica mi hanno mandato a casa. Il dottore del club era preoccupato, ma non mi diceva cosa avessi. Mai avrei pensato di poter vivere qualcosa di simile. I primi 15 giorni furono terribili. Non mi reggevo in piedi, vomitavo molto, avevo perso 20 kg. Ero senza forze. All’inizio la Roma ha scelto di nascondere tutto. Ho deciso di isolarmi e togliere i social. Ma un giorno ho guardato il telefono».
Cosa ha visto?
«Un articolo su Twitter: “Leandro Castan ha un tumore, potrebbe morire”. La paura mi ha travolto. Non sapevo ancora cosa avessi. Nessuno mi aveva detto niente. Né il club, né i dottori. Nessuno. “Stai calmo”, mi ripetevano. Poi mi sono ricordato che mio nonno era morto per un cancro al cervello. Ho pensato che il destino sarebbe potuto essere lo stesso».
Nella carriera di Leandro Castan, difensore da 100 presenze in A e 2 con la Nazionale brasiliana – esiste un prima e un dopo. Lo spartiacque è rappresentato dalla scoperta del tumore che gli ha cambiato la vita. Quel giorno i suoi sogni sono finiti: «Volevo vincere il campionato con la Roma e conquistare la Nazionale. In poco tempo mi sono ritrovato su un letto d’ospedale con un tumore in testa. Ho dovuto imparare a vivere di nuovo. Vivere una vita diversa e combattere con un malessere che piano piano stava nascendo in me. Ho fatto di tutto per tornare al mio livello. Tutto. Non è stato possibile».
Ma quando ha scoperto del tumore?
«Dopo settimane mi hanno comunicato che avevo un cavernoma cerebrale. Avrei dovuto dire addio al calcio. Nella mia testa è sceso il buio. Ero confuso. Arrivato in clinica mi hanno spiegato la situazione: “Se prendi una botta durante una partita ti potrebbe partire un’emorragia cerebrale e potresti morire. O smetti o ti operi”. Mi avrebbero dovuto aprire la testa. Un intervento molto pericoloso, non volevo farlo. Ricordo che quello stesso giorno, tornato a casa mia moglie mi ha detto che sarei diventato di nuovo papà. Un segnale di Dio».
Poi si è operato, cosa le ha fatto cambiare idea?
«Una partita della Roma in tv. Guardandola, mi è scattato qualcosa. Non volevo smettere. Il dottore mi aveva proposto di vedersi dopo le vacanze di Natale, io non potevo aspettare. Dopo una settimana ero in sala operatoria. La mia unica preoccupazione era rimanere vivo per non lasciare soli mia moglie e i miei figli. Il giorno prima dell’intervento sono andato a Trigoria per allenarmi. Tutti mi davano del pazzo, ma ne avevo bisogno».
Si è sentito solo quando ha scoperto del tumore e dopo l’operazione?
«No, io posso solo dire grazie. Grazie all’Italia e alla Roma. Mi hanno accolto e mi sono stati vicini nel momento più difficile. Se fossi stato in Brasile non so cosa sarebbe potuto succedere. Quello che hanno fatto per me i tifosi, Sabatini, i compagni è incredibile. Mi hanno offerto le cure migliori, mi hanno pagato gli stipendi e rinnovato un contratto anche senza giocare. E ho ricevuto messaggi da tutta l’Italia: Baresi, Allegri, Del Piero, Bonucci… mi hanno fatto sentire la loro vicinanza. Mi hanno dato forza. E tanti miei compagni mi sono stati vicini. Per esempio Emerson Palmieri, De Rossi, Maicon, Alisson, Radja, Benatia, ma sono solo alcuni».
Quanto è stato importante Sabatini?
«È stato un secondo padre. Ricordo la frase detta a mio papà: “Da direttore della Roma neanche tu avresti fatto quello che ho fatto io per tuo figlio”».
Quando si è presentato il tumore, lei era all’apice della sua carriera.
«Questa cosa mi ha fatto male. Pensavo che sarebbe potuta essere la stagione della consacrazione. Volevo vincere lo scudetto e conquistare la Nazionale. Poi tutto è finito. Ero disperato. “Perché io? Perché adesso?”, continuavo a domandarmi. La fede e la famiglia mi hanno salvato».
Dopo l’intervento com’è andata?
«Appena sveglio sono scoppiato a piangere con mia moglie. Non ero morto. I mesi successivi sono stati difficili, dovevo imparare a vivere. La mia vita era cambiata. Anche nella quotidianità. All’inizio faticavo a prendere un bicchiere su un tavolo. O se mi guardavo i piedi non riuscivo a muoverli. Ma il vero problema non è stata la quotidianità, ma il calcio».
È stato difficile tornare in campo?
«Ho in testa l’immagine del mio primo allenamento dopo l’operazione. Sono tornato a casa piangendo. Ricorderò sempre il momento in cui i preparatori mi avevano passato la palla. Avevo guardato il mio piede e il pallone. Volevo stopparlo con la suola, come piaceva a me. Ma il piede era rimasto fermo e la palla passata tra le gambe. Non avevo il controllo del mio corpo. Era terribile. Volevo tornare a essere quello di prima, non accettavo di non poterlo fare. Questo mi uccideva».
Cosa provava?
«Rabbia e frustrazione. Nei confronti di me stesso, di chi mi era vicino, del mondo intero. Piangevo spesso. Ero nervoso. Tutto sembrava andare contro di me. Questo mi ha portato anche a litigare con i miei compagni come Dzeko e Keita. Non ero sereno, per fortuna loro avevano capito la situazione. E poi tutti mi guardavano e trattavano come se fossi diverso da loro, come un malato. Durante un allenamento sono stato colpito da una pallonata di Paredes. Tutti erano corsi da me preoccupati. “Ma pensate che sono ancora malato?”. Non era piacevole».
Gli allenatori come si sono comportati con lei?
«Rudi Garcia mi ha sempre protetto, un secondo padre. Con Spalletti ho fatto più fatica. Ero rientrato dall’operazione. Prima della partita contro l’Hellas mi aveva chiamato in ufficio dicendomi che voleva rivedere il vecchio Castan. “Va bene, ma ho bisogno di giocare”, la mia risposta. Contro il Verona sono tornato titolare, giocando però una delle mie peggiori partite. Nei giorni successivi mi ha richiamato in ufficio, mostrandomi una foto del Frosinone. “Il tuo livello è questo, non puoi giocare qui. Tu con me non giochi più”. Mi è crollato il mondo addosso».
A Torino ha conosciuto Mihajlović.
«Mi vengono i brividi a parlarne. Alla fine di ogni allenamento si fermava con me per insegnarmi a calciare. Passavamo le ore insieme. Lo porterò sempre nel cuore».
Dopo l’esperienza con i granata, è arrivata la risoluzione con la Roma.
«Uno dei giorni più tristi della mia vita. Lì ho capito che non sarei tornato mai più a essere il vecchio Castan. E dovevo dire addio alla Roma, la mia seconda casa. Quel giorno a casa ho fissato per ore il vuoto».
Roma cosa rappresenta per te?
«Roma e l’Italia mi hanno trattato come un figlio. Io posso dire di essere un figlio di Roma, amo e amerò sempre questa città e questa squadra».
Ha deciso di tornare nel suo Brasile.
«Dove tutto era iniziato. Sono nato in una famiglia povera. E nella mia terra il calcio è una delle uniche possibilità per cambiare vita. Mio papà era un calciatore. Finita la carriera, abbiamo vissuto una situazione economica complicata. Lui faceva il tassista fino a tarda notte per portare a casa qualche soldo. Dopo due suoi gravi incidenti in moto, avevo deciso di smettere con il calcio per andare a lavorare. Ma il destino voleva altro. Nello stesso giorno in cui avevo comunicato a mio padre la scelta, era arrivata la chiamata dell’Atletico Mineiro. La mano del Signore».
Ha giocato anche alcuni mesi in Svezia all’Helsingborg.
«Una scelta del mio vecchio agente. Non sapevo neanche dove fosse la Svezia. Un’esperienza negativa. Io, un giovane ragazzo cresciuto in Brasile, nell’altra parte del mondo. Non parlavo con nessuno, il cibo non mi piaceva. “One Big Mac, please”, l’unica cosa che dicevo. Dopo poco sono tornato in Brasile. Sono arrivato a vincere la Copa Libertadores con il Corinthias. Poi è arrivata la chiamata di Sabatini».
Ora è in Brasile e sta studiando per diventare un allenatore.
«Mi piace stare in campo, sentire l’odore dell’erba, entrare in contatto con i ragazzi. Non è ancora finito il mio momento. C’è un’altra vita nel calcio per Leandro Castan. Ho provato a stare lontano dal pallone, ma non ce l’ho fatta».
Ha mai fatto pace con sé stesso dopo quello che è successo?
«Per anni non sono riuscito. Non accettavo il non essere in grado di tornare al mio livello. Qualcosa è cambiato dopo aver parlato con una psicologa. Mi ha aiutato a capire che era inutile fissarmi obiettivi basati sul vecchio Castan. Dovevo lasciarlo andare e pensare al futuro».
Se ripensa al tumore cosa prova?
«Probabilmente un punto definitivo sul passato non riuscirò mai a metterlo, ma ora sono vivo. Un giorno ho sentito un pastore dire: “Un uomo senza sogno è un uomo morto”. Da quel momento la mia visione è cambiata. Ho deciso di andare avanti. Solo io so quello che ho passato. Paure, dubbi, caos. Ora sono qua in Brasile, ho una famiglia, vedo crescere i miei figli. A volte mi chiedono della mia storia. Tra qualche mese li porterò a Roma. In quelle strade dirò loro chi è stato il loro papà. Un bambino di Jaù che ce l’ha fatta e ha vinto la sfida più grande della sua vita».