L’Adige, 18 giugno 2025
Lettera di Giovanni Ceschi, sul caso liceo Prati - La Maturità non esiste più
Questa notte è ancora nostra? Andrebbe chiesto ad Antonello Venditti, oltre quarant’anni dopo quella canzone che ha segnato un’epoca. In altre parole: che fine ha fatto la maturità? Una brutta fine. Della maturità è rimasto l’imprinting collettivo, quello un po’ nostalgico che ci fa tornare con un brivido alla notte prima degli esami, calata una volta sola nella vita di tutti noi.
Ma di quel brivido oggi i nostri studenti sono stati defraudati. A partire da un nome – esame di Stato – che ha il colore grigio dell’apparato e la trasparenza insulsa della formalità.
Per proseguire con simulazioni in corso dell’anno, quasi li attendesse un evento sismico, colloqui pensati come chiacchierate del più e del meno, equilibrismi di valutazione che annullano ogni sorpresa. Del rito del passaggio all’età adulta nemmeno più l’ombra, proprio perché la nostra società, confusa e felice nella sua immaturità, non può consentire che i suoi figli vivano l’incertezza dell’essere stati e del non essere ancora, e cerca d’illuderli che l’unico senso possibile consista nel godimento di un eterno presente.
La maturità che non esiste più è il simbolo di una Scuola evaporata come ostacolo e come palestra di vita. A scanso di equivoci, a prevenire smorfie perplesse: il nostro non è l’elogio della fatica e della difficoltà fine a se stessa. Il senso dell’imparare e del crescere non è certo lì.
Ma siccome da almeno un trentennio la scuola sta facendo di tutto per appianare ogni ostacolo e per mostrare il suo volto più rassicurante, al punto da apparire ebete in ogni suo rito, e pur tuttavia – statistiche e cronache alla mano – i giovani proprio da lì hanno cominciato a essere più insicuri, più ansiosi, più disarmati di fronte alle sfide del presente e del futuro; siccome questo modello di scuola come preparazione alla vita è fallito, la soluzione non dovrebbe consistere nell’accentuarlo ma – se l’amore è amore, cioè se amiamo veramente i nostri studenti come persone – è urgente che cominciamo a chiederci come invertire la rotta di un naufragio evidente.
Certo: mamme e papà col biberon in mano, e nonne alla finestra, continueremo a trovarne. È nella natura delle cose che sia così. L’istinti protettivo è nel dna di genitori, che trent’anni fa o giù di lì, hanno cominciato a sentirsi scivolare il terreno della scuola e della vita sotto i piedi, e si sono giurati che ai loro figli non sarebbe successo.
Ma di quale tradimento e quale trauma parliamo? Di quello perpetrato da una Scuola che da un certo momento in poi ha smesso di fare scuola e ha cominciato a prendere lei il biberon in mano, ad accudire nelle svariate forme dell’assistenza sociale, della psicologia a buon mercato, della pacca sulle spalle data per paura di essere giudicati nell’incapacità di indicare la strada. È stato – guarda caso – il momento in cui nell’immaginario comune l’insegnante ha smesso di essere un lavoro e si è cominciato a dipingerlo come una missione; mentre la Scuola ha bisogno, disperato, di professionisti competenti, e non di rassicuranti amiconi.
I pini di Roma – cantava Venditti – la vita non li spezza. E ora, nelle nostre aule, troviamo sempre più spesso gioventù spezzate dai nubifragi più diversi. Famiglie disgregate. Solitudini soffocate nel chiasso di una musica sparata negli auricolari.
Momenti di agghiacciante e assurda disperazione. Come unica risposta a questa montagna d’inquietudine, la Scuola non ha saputo fare di meglio che annullarsi, rassicurando i propri figli sulla sua insignificanza per la vita. Profezia che a quel punto si è perfino avverata.
C’è una pozione magica fida mettere nei biberon perché questa notte torni ad essere dei nostri studente e perché alla fine dalla canzone, quando sul palco si accenderanno le luci della vita, li troviamo anche un po’ cambiati grazie a noi, anziché per colpa nostra?
Forse sì: cominciamo a a chiedere loro anche quello che non sanno fare, ad attenderci risposte a domande non preparate che ci possano stupire, a insegnare con la passione di ciò che amiamo, per tutto il tempo in cui sono affidati e a spiazzarli con la bellezza di una Scuola che attenda davvero di scoprire il loro mistero, anziché sfamarli tristemente in una notte di pizze fredde e di calzoni.
E come poi facciano le segretarie con gli occhiali a farsi sposare dagli avvocati, almeno quel mistero lì non proviamo a spiegarlo.
Giovanni Ceschi
Docente al Liceo Prati e presidente di Docet, associazione insegnanti del Trentino