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 2025  luglio 16 Mercoledì calendario

Intervista ad Alessandro Greco

«Non è che sognassi di fare questo mestiere. All’inizio la mia era più che altro una ricerca di attenzione, ma non nel senso di egocentrismo, quanto di affettività». È un percorso che parte da lontano, fatto di tanti passaggi, di svolte e di incontri quello di Alessandro Greco, oggi volto di Unomattina estate, su Rai1. In una manciata d’anni è passato dalle feste di piazza al successo totale di un programma come Furore, per poi proseguire su quella montagna russa che è il mestiere dello spettacolo, tra momenti bellissimi e grosse ingiustizie, che però lui, da credente, ripercorre cercando di mantenere «un senso di gratitudine».
Diceva della sua ricerca di affettività.
«Vengo da una famiglia segnata in negativo dalla mancanza di affettività e comunicazione. C’era una certa rigidità, un clima austero che ho vissuto quasi come fossi un figlio unico, avendo una sorella e un fratello più grandi di me di dieci anni: loro si sono sostenuti a vicenda, io ho respirato da solo quell’atmosfera da film western, con la pistola sempre fumante e in ogni momento il rischio che si potessero generare tensioni, anche forti. Per questo, quando ho capito che con le mie attitudini artistiche divertivo le persone e mi davano affetto, non ho più voluto rinunciare a questo scambio».
Ha iniziato a fare serate di piazza che ancora non era maggiorenne.
«Presentavo ma avevo anche delle mie performance: imitavo Lucio Dalla, Celentano, Pizzul. Ero entrato così nel giro degli spettacoli itineranti, in contatto con quei comitati di cui Michele Guardì (storico autore tv, ideatore de I fatti vostri, ndr) ha fatto una religione. In una di quelle serate, in provincia di Bari, mi dissero che sarebbe intervenuto un pianista: iniziò a suonare ed era bravissimo. Aveva anche dei momenti parlati e ci fece sbellicare: era Checco Zalone».
Ha tenuto a battesimo Checco Zalone?
«Posso dirlo. Era ai suoi inizi, ed era veramente un personaggio stranissimo, pieno di insicurezze nel suo essere geniale. Non sapevi mai dove sarebbe andato a parare, bellissimo».
La sua prima apparizione in tv?
«A 17 anni. Avevo vinto la sezione volti nuovi a Castrocaro, me lo fecero sapere tramite telegramma. Andai al concorso e mi trovai di fronte una dea di nome Clarissa Burt. All’epoca stava con Troisi e dopo avermi sentito mentre lo imitavo, mi chiese di farla a lui al telefono. Imbarazzatissimo obbedii. Lui diceva: “Ma io non parlo accussì (e imitava la sua voce)”. “No, no, tu parli proprio accussì”, ribattevo io».
Poco dopo fu la volta di «Stasera mi butto».
«Era il 1992, anno del mio militare: ero stato preso, udite udite senza raccomandazioni, nei carabinieri. Ero finito alla stazione di Fregene e ho dovuto chiedere sfacciatamente al comandante se mi poteva autorizzare per fare un provino a Roma. Accettò, a patto che restassi in divisa, solo che alla Dear (studi televisivi della Rai, ndr) pensavano che il carabiniere fosse il mio personaggio. Mi presero e la mia vita cambiò: da mezzanotte alle 8 facevo il piantone, poi mi mettevo in macchina e arrivavo a Rimini, al Bandiera gialla, per fare le prove più la diretta e poi ripartire. Ma finalmente ero entrato nel semi professionismo».
Chi è stato il suo Pippo Baudo?
«Raffaella Carrà, ma prima di lei devo citare anche Lino Banfi che, nel 1994, mi aveva voluto nel suo programma di Radio 2: imitavo i cantanti. Erano gli anni in cui Pino Daniele, Jovanotti e Eros Ramazzotti facevano concerti trionfali insieme, i fan si aspettavano un loro disco, che però non arrivava...».
Ci pensò lei.
«Con lo pseudonimo Idem, cantai una serie di brani scritti dagli autori di “Perdere l’amore” imitando le loro tre voci che si intrecciavano. La canzone di punta, “Evviva la musica (Ue’ guagliò)” fece il finimondo, vendendo oltre 80 mila copie: era trasmessa da tutte le radio».
Come la presero loro tre?
«Non lo so. Mi risulta però che Jovanotti non ci rimase proprio bene, anche perché aveva un disco in uscita... Quindi, legittimamente, si arrabbiò. Però in quegli anni anche Fiorello aveva fatto cover di brani famosi nel suo disco “Veramente falso”, non era nulla di truffaldino. Anche lui, inoltre, è una persona a cui devo qualcosa».
In che senso?
«Mi ha sempre sostenuto, e si è sempre ricordato di me. Mi ha coinvolto anche a “Viva Rai2”, per vendere il glass, visto che dal 2015 sono testimonial di una azienda per cui faccio il venditore in tv. Nel primo Sanremo condotto con Amadeus, mi ha anche citato, dicendogli: “Non ti gasare, stai calmo, ci vuole un attimo a fare flop e poi dicono via Amadeus, arriva Alessandro Greco”. Molti ci hanno visto del male dove non c’è: è stato l’ennesimo pensiero di Rosario per me».
Pensa che avrebbe potuto avere di più dalla sua carriera?
«Il libero professionismo è fatto di alti e bassi. Spesso sono stato chiamato per togliere delle castagne dal fuoco, come quando mi sono ritrovato a condurre la finale di Castrocaro, qualche anno fa, su Rai1: un concorso che inevitabilmente è calato negli anni, eppure abbiamo vinto la serata. Lo stesso è successo quando ho presentato gli 80 anni di Miss Italia: oltre quattro ore nell’era del politically correct. Se sei un conduttore la continuità conta, un utilizzo a macchia di leopardo è difficile da gestire. Cerco però di lasciare il segno ogni volta. Ma per rispondere alla domanda, sì, penso che avrei potuto dare di più e anche che ho subito alcune ingiustizie».
Ad esempio?
«Ci sono stati dei programmi che mi sono stati spiegati, proposti e che poi o non si sono fatti o sono andati in onda condotti da altri».
Perché?
«A volte ci sono delle relazioni che vanno oltre quello che dovrebbe essere il normale andamento della meritocrazia».
Capitolo «Furore»: una rivoluzione.
«Era la discoteca degli italiani. Nel 1998 vinse il Telegatto battendo proprio Sanremo, che era nella stessa categoria. Alla conduzione mi volle Raffaella Carrà, appunto. Avevo solo 25 anni e c’erano già pronti personaggi molto famosi che volevano quel posto. Io avevo fatto un provino che aveva convinto tutti e lo dissero a Raffaella, che era la capoprogetto. Mi volle incontrare e, guardandomi dritto negli occhi, mi disse: ma tu da dove vieni? Le raccontai praticamente quello di cui stiamo parlando in questa intervista e lei rispose solo: “Adesso ho capito”».
In quegli anni ha pensato di essere arrivato?
«Per entrare e uscire dal centro di produzione di Napoli dovevo essere scortato, era successo il finimondo. Non ho pensato di essere arrivato, ma mi sono reso conto che la mia gavetta aveva avuto un valore, che artisticamente non ero più uno sconosciuto».
In tempi recenti, ha partecipato a «Tale e quale», vincendo anche la versione dedicata a Sanremo. Come si passa dal ruolo di conduttore a quello di concorrente?
«Basta capire che la differenza la fa la coralità, non ritenendo l’altro una minaccia ma uno stimolo. Considero Carlo Conti un amico e sono grato per quello che mi ha dato Tale e quale».

Tornando alla voce ingiustizie, pare che a un certo punto abbia dato fastidio anche il rapporto con sua moglie, Beatrice Bocci. È stato così?
«Assolutamente sì. Quando ci siamo innamorati certi valori non erano stati ancora riscoperti e noi siamo stati descritti come due integralisti, scontati, noiosi... Ma eravamo semplicemente due ragazzi innamorati che avevano deciso di mettere su famiglia. Quando ho conosciuto Beatrice, Alessandra, nostra figlia, aveva già 5 anni: io ho deciso di esserci anche per lei. “Povero Greco, è rimbambito”, mi dicevano. Ma io ero innamorato e se ami abbracci tutto il mondo dell’altro, anche le difficoltà di dover fare il padre nel rispetto di un padre esistente. Ho avuto tutti gli oneri ma poco onore. Ma alla fine l’amore ha prevalso, il bene vince sempre (insieme hanno avuto anche un secondo figlio, ndr) e mia figlia da tempo mi chiama babbo. Agli inizi della nostra storia, però, sono state inventate anche leggende metropolitane per screditarci».
Quali ricorda?
«Si parlava di una reciproca gelosia spropositata. Bugia. Così come il fatto che io ponessi come condizione il dover lavorare con lei. Semplicemente, facevamo lo stesso mestiere ed eravamo entrambi disponibili a fare anche cose insieme, ma mai come imposizione».
Di recente avete parlato della vostra castità. È vero che dura da quasi quattro anni?
«Sul web ci si ferma ai titoli che non possono spiegare quello che in realtà è il frutto del nostro cammino di fede. È stata una decisione sponsale rimettere al centro della nostra vita personale e di coppia i sacramenti, così da poterci sposare anche in Chiesa, come è successo nel 2014, dopo che ci eravamo uniti civilmente nel 2008. Noi abbiamo accolto la castità dopo anni di relazione e due figli così che i sacerdoti potessero offrirci i sacramenti, che sono il livello massimo di unione con Dio. Nessuno ci ha prescritto di farlo, non ci hanno dato una ricetta con scritto di rimanere casti. È stata una nostra libera scelta»
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Parlando di titoli, oggi è in gran forma, ma in passato si è molto parlato anche del suo peso.
«Oggi lo chiamerebbero body shaming. A un certo punto è stato detto anche che non ero più presentabile, che ero sfatto. Faceva male. La verità è che devo stare attento, perché sono cintura nera di enogastronomia e quindi, se esagero, poi devo anche espiare, cosa che ora faccio».
Sogni per il futuro?
«Voglio allenarmi alla gratitudine, per ciò che sono e quello che ho. Forse mi piacerebbe avviare un’impresa di famiglia. In generale mi sento un uomo affettivamente realizzato».
E i suoi genitori? Oggi come va con loro?
«Fanno il tifo per me, quindi ho vinto».