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 2025  luglio 16 Mercoledì calendario

Intervista a Maria Carla Gatto

La presidente del Tribunale per i minorenni di Milano, Maria Carla Gatto, il 10 luglio ha compiuto 70 anni (auguri!). Non è stato solo un compleanno importante, ma l’ultimo giorno di lavoro. Adesso è in pensione.
Che effetto le fa?
«Sono incredula. Dopo 45 anni di lavoro effettivo mi sembra un po’ strano».
Siciliana di Patti, nel Messinese, Milano era nel suo destino.
«In effetti sono nata a Milano e ci ho vissuto fino ai 3 anni. Poi con la mia famiglia siamo rientrati tutti in Sicilia. A 25 anni sono ritornata con mio marito, e a Milano ho svolto anche l’uditorato, il primo passo della carriera in magistratura».
Ha sempre sognato di fare il magistrato?
«No. Ero indecisa tra Architettura e Psichiatria, ma ho potuto sviluppare questi interessi anche con il mio lavoro».
Psichiatria lo capisco: si è confrontata ogni giorno con specialisti della materia. Ma architettura?
«Quando sono diventata presidente del Tribunale per i minorenni di Brescia stavamo in una struttura semi abbandonata all’interno di un condominio, poco rispettosa della funzione che svolgevamo e inadeguata alle persone che accoglievamo. Dopo numerose insistenze con la politica locale, sono riuscita ad assicurare al Tribunale una sede dignitosa in centro. Ma sul piano architettonico sono intervenuta pure a Milano».
Come è possibile? Quando è stata nominata presidente, nel 2017, la sede era già nel bellissimo palazzo di Piero Portaluppi.
«Vero. Ma da 7 anni c’erano impalcature per proteggere i passanti dall’eventuale caduta dei marmi di Calacatta. E invece siamo riusciti a rifare la bella facciata del palazzo».
Ha due figli. Come è riuscita a conciliare maternità e lavoro?
«Clara oggi ha 43 anni, Michele 41. E sono nonna di due bellissime bambine di 9 e 12 anni. Non è stato facile, senza la rete familiare che mi avrebbe supportata in Sicilia. Però è venuta in mio soccorso la cerchia amicale, che ha sostituito nella quotidianità quella parentale. Ricordo le volte che aspettavo l’arrivo della baby sitter sulla porta, già con la borsa da lavoro in mano».
Non esistevano ancora permessi e maternità facoltativa.
«Diritti sacrosanti, ai tempi era un’impresa conciliare tutto. Negli ultimi anni mi sono impegnata molto per ringiovanire la squadra del Tribunale. Le giovani mamme, sotto la guida dei colleghi più anziani, sono una risorsa importante: il confronto con loro è fondamentale, non basta solo l’esperienza».
È stata presidente di due Tribunali per i minorenni per 16 anni. Se i suoi figli fossero stati piccoli avrebbe accettato l’incarico?
«No. Ho fatto il giudice civile nel Tribunale ordinario e in Corte d’Appello. Poi per molti anni mi sono contestualmente occupata di formazione, a Milano e a Roma, quando i ragazzi erano già autonomi».
Una donna per ottenere ruoli di comando deve lavorare il doppio rispetto a un uomo?
«Il doppio forse no, però ci vuole un notevole impegno: i riconoscimenti sono più difficili da ottenere, basta guardare le statistiche sugli incarichi direttivi. Ma sono contraria alle quote di genere: credo che impegno costante e professionalità facciano conseguire i risultati ai quali si aspira».
Si è occupata di moltissimi casi. E non è mai intervenuta. Fece eccezione per Martina Levato e Alexander Boettcher, la «coppia dell’acido», con una lettera al Corriere.
«Eravamo sottoposti a una grande pressione mediatica. Difesi la scelta di non affidare il loro figlio ai nonni: le decisioni del Tribunale per i minorenni e della Corte d’appello, assunte da cinque magistrati e quattro esperti, erano state concordi nel concludere che il bambino versava in una situazione di abbandono morale e materiale irreversibile: nessuno dei familiari era in grado di rappresentare una figura valida di riferimento».
Il caso più difficile?
«Tutti quelli nei quali i bambini erano vittime di gravissimi maltrattamenti psichici e fisici da parte dei genitori. E poi sono drammatici i casi dei figli che assistono all’omicidio della madre da parte del padre: è un trauma difficilmente elaborabile».
È riuscita a incidere?
«Ho sensibilizzato i colleghi a conferire l’incarico ai curatori speciali dei minori perché si attivino a ottenere almeno i fondi messi a disposizione dalla Regione Lombardia e dal ministero dell’Interno per dare supporto nell’immediato. Fino alla sottoscrizione in Prefettura del Protocollo per i figli delle vittime di femminicidio, pure io ignoravo l’esistenza di queste somme, spesso inutilizzate».
Riccardo Chiarioni, il 17enne di Paderno Dugnano che ha ucciso il padre, la madre e il fratellino con 108 coltellate, è stato condannato a 20 anni. Ha appena preso la maturità scientifica. Si può recuperare un ragazzo dopo un delitto così efferato?
«Sì, i ragazzi possono essere recuperati tutti, non si valuta la possibilità di recupero dall’efferatezza del reato. Il vero problema è se questi ragazzi siano disponibili a seguire percorsi di recupero. In genere l’istituto della messa alla prova è vincente».
Riceve notizie dai minori che ha dato in adozione?
«Qualcuno mi manda foto della prima comunione o di altri momenti importanti. La soddisfazione più grande arriva dai minori maltrattati che riescono a inserirsi in una realtà familiare amorevole».
Le è spiaciuto chiudere mediatamente la sua professione con il caso di Luca, il bambino di 4 anni tolto alla famiglia affidataria con la quale viveva dal primo mese e dato in adozione a una nuova famiglia?
«Chiudo la carriera con gli 80 abbinamenti di bambini per i quali ogni anno, grazie anche al supporto di una équipe di sette giudici onorari, il Tribunale per i minorenni di Milano individua la famiglia più adeguata a rispondere alle specifiche esigenze di crescita di ciascuno. Compresi i bambini con bisogni speciali: con gli appelli sul nostro sito Internet, anche a loro viene assicurato l’amore di una famiglia».
Non è durato troppo l’affidamento di Luca alla famiglia affidataria?
«La durata del procedimento dipende dalle problematiche attinenti al nucleo familiare di origine, vale per tutti: bisogna prima accertare per legge la irreversibilità della situazione di abbandono».
La Riforma Cartabia ha appesantito le procedure anche per voi?
«Sì. I nostri procedimenti sono tutti indifferibili e urgenti, mentre adesso c’è un appesantimento burocratico. A Milano i procedimenti arretrati, cioè i bambini in attesa di un intervento di tutela, sono più di 13 mila, mille in più rispetto al passato».
Eppure lei ha fatto parte della Commissione Cartabia. Non è riuscita a intervenire per migliorarla?
«La legge delega era già stata fatta. Le peculiarità del giudizio minorile non sono state tenute in sufficiente considerazione».
L’evasione al Beccaria l’ha molto coinvolta, anche se la gestione del carcere minorile dipende dal Ministero della Giustizia.
«Mi sono molto spesa, con don Gino Rigoldi. Siamo intervenuti per trovare una soluzione per il completamento dei lavori che si protraevano da 15 anni. La criticità maggiore del Beccaria credo sia l’assenza di un direttore stabile».
Ha visto la serie tv Mare fuori?
«Sì. La prima stagione era fatta molto bene. Ma temo sia stata un’occasione mancata per sensibilizzare sulla situazione dei ragazzi».
E ha visto Adolescence?
«Sì. Racconta bene lo smarrimento dei genitori: i ragazzi, per loro, sono degli sconosciuti. Abbiamo avuto modo di verificarlo tante volte in udienza di convalida. Oggi la violenza giovanile deriva dall’isolamento dei ragazzi e dall’influenza nefasta dei social, che fa confondere vita virtuale con vita reale».
Cos’altro è cambiato?
«La violenza filo parentale è cresciuta: maltrattamenti dei figli nei confronti dei genitori. Per non parlare degli insegnanti. Ma basta leggere i testi delle canzoni che molti giovani scrivono e ascoltano».
È vero che ha fatto mettere un cartello davanti all’Aula di udienza chiedendo di vestirsi in modo adeguato?
«Sì, ormai in Tribunale vedevamo troppi adolescenti che si presentavano con calzoncini corti, canotte, ciabatte. Ma il rispetto per gli altri e per sé passa per il rispetto dell’istituzione, dell’autorità, del mondo degli adulti. Ed è anche una questione di forma».