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 2025  luglio 16 Mercoledì calendario

Com’è pesante essere un elefante in India

Il traffico si ferma a Jaipur quando un tripudio di clacson annuncia il passaggio di una fila di elefanti. Con passo lungo e lento si muovono tra i tuk-tuk, appaiono e scompaiono tra i finestrini dei veicoli. Indossano briglie e accessori decorativi, con pitture sgargianti sulla proboscide e sugli occhi.
Si tratta di una scena quotidiana, vicino al forte Amber, quando il sole è alto a mezzogiorno e gli elefanti si ritirano dal loro lavoro: a quest’ora fa troppo caldo per continuare a trasportare i turisti lungo le rampe e le scalinate. Così, con i rispettivi mahout – i custodi che li seguono fin dall’infanzia – sul dorso, si ritirano nei santuari. Mentre li ammiro passare mi ritorna in mente una frase letta nel tempio di Swaminarayan Akshardham di Nuova Delhi: «Quando il mondo stava per essere creato, l’elefante chiese che fosse costruito dall’alto della sua schiena».
L’elefante ha da sempre un ruolo simbolico e sacro in India, che ospita intorno ai 27.000 esemplari, la più grande popolazione di elefanti asiatici al mondo. Di questi, circa il 70 per cento è diffuso in tutto il Paese, ma con condizioni di vita molto diverse da Stato a Stato. Nel Sud ad esempio, in regioni come il Kerala, è possibile incontrare ancora comunità selvatiche nelle foreste. In aree più a Nord, come in Rajasthan, gli elefanti vivono esclusivamente in cattività, accolti in strutture presentate come santuari: luoghi nati per offrire riparo a esemplari feriti o sottratti al bracconaggio.
Sebbene, in origine, i santuari siano stati concepiti per tutelare la specie e valorizzare tradizioni e cultura locali, molti si sono nel tempo adattati ad attività turistiche. Complice la forte crescita della domanda negli ultimi anni, che ha modellato l’offerta, influenzando anche la routine quotidiana degli animali.
Sempre più in alto
Secondo l’Economic Review 2024?25, pubblicato dal sito governativo del Rajasthan, il turismo con gli elefanti è oggi un comparto in piena espansione. Il flusso turistico supera ormai i 50 milioni di visitatori all’anno, e ricopre circa il 15 per cento del Pil statale. L’indotto si espande attorno a itinerari esperienziali, pittura decorativa sulla pelle, interazioni dirette come dar loro da mangiare o, nei casi più controversi, il permesso di cavalcarli. Solo all’Amber Fort di Jaipur, circa 125 elefanti al giorno trasportano turisti fino alla sommità del palazzo. Su una stima complessiva di 2.700 e 3.500 elefanti in cattività, presenti in tutta l’India, di cui oltre il 75 per cento impiegati nel turismo.
In questo contesto, molti santuari propongono esperienze presentate come etiche e fondate su una presunta armonia tra umani e animali. Ma sembra proprio essere lo sguardo umano a semplificare e rendere fuorviante la narrazione alla base dell’offerta turistica.
Come sottolinea il report Elephants Not Commodities di World Animal Protection (WAP): «Definire gli elefanti come “addomesticati” è fuorviante, semplifica la loro condizione e ne distorce la realtà biologica». Pur vivendo a stretto contatto con gli umani, questi animali conservano istinti e comportamenti tipici delle specie selvatiche. «Parlare di domesticazione rischia quindi di occultare un processo ben diverso: l’addestramento al fine di garantire l’obbedienza dell’animale», chiarisce l’organizzazione, riferendosi a metodi di controllo in contrasto con i loro bisogni naturali.
Studi accademici e osservazioni sul campo segnalano di fatto condizioni critiche: sonno e alimentazione squilibrati, isolamento, e disagi legati all’uso continuativo di bastoni e selle rigide (howdah). Fattori che compromettono il benessere fisico e spesso anche quello comportamentale.
Un esempio emblematico è quello dell’elefantessa Malti, impiegata per anni al Forte Amber e trasferita perché in evidente difficoltà in un santuario dopo una lunga campagna di PETA India, organizzazione impegnata nella tutela degli elefanti sul territorio. Anche altri esemplari hanno mostrato sofferenza, talvolta con reazioni aggressive: nel 2024 l’elefantessa Gouri è stata filmata mentre attaccava una turista, riaccendendo il dibattito sui limiti della convivenza forzata tra esseri umani e animali.
La meraviglia
Ma come avviare un cambiamento? A rendere la questione ancora più complessa è il rapporto con i mahout, spesso descritto come simbiotico o spirituale ma fondato principalmente su un legame ottenuto con pratiche di addestramento, spesso invasive, che vengono tramandate da generazioni. Un legame che oggi va oltre il valore culturale, e soddisfa una necessità economica: per molti mahout, prendersi cura degli elefanti è spesso l’unica fonte di reddito.
Secondo numerose organizzazioni, una risposta concreta può venire dalla consapevolezza dei turisti e dalla scelta di esperienze più rispettose degli elefanti. Non è però un processo immediato. L’attrazione che esercitano questi animali è potente: la loro imponenza suscita una meraviglia che spesso impedisce di cogliere segnali di malessere. «Per molti visitatori – osserva PETA India – l’incontro con un elefante resta un’esperienza emozionante e irripetibile, ma troppo breve per percepire segni di stress o sofferenza».
Nel frattempo, il quadro legislativo sembra appoggiare questo nuovo modello turistico, introducendo emendamenti che legittimano pratiche orientate più a logiche economiche che alla tutela. Le modifiche al Wildlife Protection Act del 2022 e l’introduzione dei Captive Elephant Transfer Rules nel 2024 hanno esteso infatti le condizioni favorevoli al trasferimento degli elefanti in cattività, includendo finalità religiose e culturali.
Una revisione che, secondo PETA India, rischia di rendere sempre più labile il confine tra conservazione e sfruttamento: «In nome del turismo, stiamo trasformando un simbolo nazionale in un’attrazione. Ma a quale prezzo?».