repubblica.it, 16 luglio 2025
Intervista a Carol ALt
Al momento dell’appuntamento il telefono squilla a vuoto. Dieci minuti dopo Carol Alt richiama, la voce contrita: «Mi scusi, ero in apprensione perché non trovavo uno dei miei due gatti. Joel è malata, ha un tumore allo stomaco e un problema alla zampa e così si nasconde sempre e dorme. Era in un cassetto del guardaroba». Sessantacinque anni il primo dicembre, l’attrice si riposa nella sua casa a Long Island: «Ho quattro progetti che partono a ottobre, così mi godo un po’ di vacanza, cosa rarissima nella mia vita. La serie Paper empire, con Cuba Gooding Jr., Lady America, la commedia Blow out con Adam Sandler. Il quarto è un film d’arte, lo considero il mio futuro. Ma aspetto anche progetti italiani, chiamo ogni settimana la mia agente, sono felice di lavorare con voi».
In Italia ha girato tanti film. Ricorre l’anniversario di “Sotto il vestito niente”: Carlo Vanzina l’avrebbe voluta protagonista.
«Sì, mi aveva chiamato ma ero a Los Angeles a teatro con Bob Fosse, non ero libera. In realtà avevo letto il copione ed era strano: mi aveva spaventato, guardavo sotto il letto in camera prima di dormire. Ma poi abbiamo fatto Via Montenapoleone».
"Sotto il vestito niente”, il film di Carlo Vanzina compie 40 anni e torna al cinema. Era il 1987. Il set fu difficile.
«Un disastro. Il mio primo vero film, davanti alla macchina da presa. Dopo il primo ciak ho detto al mio assistente: “Mio Dio, ho ancora due settimane di questo casino”. Poi ce l’ho messa tutta e sono migliorata. Anni dopo, quando Carlo mi ha richiamato per I miei primi quarant’anni, me lo ha detto: “Anche io in quel momento ho pensato: mio Dio, ancora due settimane con lei…”. Ma poi tutto è andato bene. È stato lui a impormi a Marina Ripa di Meana: lei avrebbe preferito Raquel Welch, molto più prosperosa. Ma poi ci siamo incontrate ed è rimasta colpita da tutte le domande che le ho fatto, dalla mia voglia di approfondire. E dopo l’anteprima, il marito di Marina ha detto: “Ora ho due mogli”. Con Vanzina ho fatto anche Miliardi e Piper, nel 2007, vent’anni dopo il primo incontro. Mi disse: “La tua faccia non cambia mai, sullo schermo sei la stessa”».
Com’era quella Milano “da bere”?
«Creativa, irresistibile, energetica, piena di artisti. E le persone erano più semplici. Oggi è diverso, più difficile. Instagram ha cambiato tutto. Una modella in America, per un agente importante, deve avere almeno 50 mila follower. Molte ragazze non vanno avanti perché non hanno Instagram. E troppa gente vende l’anima: foto di nudo che poi girano per sempre. Vedo genitori così felici che i figli sono su OnlyFans e fanno sesso perché guadagnano milioni. Non fa per me».
Lei fece un servizio fotografico per Playboy.
«Una rivista elegante, con articoli colti. Ora è tutto caduto in basso. Ma per i giovani è normale. Io ho iniziato nel ’79, se in una foto due donne si toccavano, i lettori americani, puritani, scrivevano per protestare».
Ha scritto due romanzi sul mondo delle modelle, non pubblicati in Italia.
«L’ho fatto perché le giovani donne potessero navigare nel mondo della moda. Avevo sentito storie tremende. Ma non avrebbero ascoltato una quarantenne e quindi ho creato un alter ego diciottenne. Ho pescato dalla mia vita, certo, ma lo scopo era aiutare le ragazze».
Il consiglio più importante?
«Ne avrei tanti: non fare nulla che non vorresti che tua mamma o tua nonna vedessero. Instagram vive per sempre, non ti compromettere. Nessun lavoro è così importante da fare da solo la tua carriera: ci sono tanti mattoni che fanno un numero, tanti lavori che fanno una carriera. E poi: lavora sodo, porta qualcosa alla festa. È una regola di vita: quando vai a casa di qualcuno porta qualcosa. Lo stesso sul set. Arriva allegra, lavora forte, non piangere, non gridare. Nessuno vuole persone difficili».
La festa più bella?
«Un ballo a Venezia. C’erano candele su tutto il Canal Grande: romantico, bellissimo. Mi hanno portato in una casa con la gente più elegante che avessi mai visto. Oggi nessuno si veste bene».
Ha più visto o sentito Renée Simonsen?
«No. Ci sentiamo ancora con Luca Barbareschi. Ma tante persone a cui ho voluto bene non ci sono più. Parlavo tanto con Dino Risi, lo ricordo con affetto. Una volta eravamo in Brasile, è arrivata una mia amica e abbiamo iniziato a ballare. Dino mi guarda per quindici minuti, poi mi dice: “Sei fantastica, ora scrivo una scena con te che balli”».
In Il vizio di vivere era Rosanna Benzi, la scrittrice che ha vissuto per ventinove anni in un polmone d’acciaio.
«Esperienza fortissima. Con Marina Ripa di Meana ho capito che la sua vita era nelle mie mani, è stato un regalo, è stato divertente. Ma con Rosanna Benzi è stato tutto amplificato. Il film era importante per la sua vita, e parlando con lei ho compreso la sua anima e l’ho portata nel mio corpo. Riguardo al film, per me il mondo poteva odiarlo, mi bastava che lei lo amasse, come lo ha amato. E questo mi ha fatto sentire completa».
Cosa ricorda di Silvio Berlusconi?
«Lo adoravo. Giravo il film prodotto da Guido Lombardo, Due vite, un destino con Rod Steiger, Michael Nouri, Burt Young. Silvio invita a cena tutti gli attori. Durante la serata si alza, fa arrivare una cornucopia gigante d’argento, da cento chili. E dice: “Questo è per il mio attore preferito al mondo”. Tutti si guardano, lui parlava di attore… poi dice: “Carol Alt”. A momenti cado dalla sedia. Wow».
Dov’è oggi la cornucopia?
«Nel divorzio, mio marito si è preso tutto. Ho ricominciato tutto da capo a 34 anni. Conservo una enorme farfalla che mi ha regalato Silvio, una sera a casa a Roma, era presidente del Consiglio. Un gioiello che ho nel cassetto, la considero un portafortuna. Era generoso, ha sostenuto tutti i miei film. E apprezzo chi inizia con nulla e crea una grande vita. Io ho fatto la cameriera, mio padre era un pompiere. Mentre parliamo guardo la mia casa e ogni oggetto che c’è qui l’ho guadagnato, ne conosco il valore».
Con Duccio Tessari ha girato Il principe del deserto, con Rutger Hauer e Omar Sharif.
«Rutger era un personaggio. Pieno di vita, curiosità. Voleva vedere tutto. Entrava nelle case marocchine, mi portava dappertutto. Lavoravo tutto il giorno, poi il sabato lui diceva: “Andiamo, ho preso una macchina”, andavamo nel deserto, correvamo tra le dune, compravamo i gioielli dai beduini, visitavamo le piccole città, le case. Parlava con la gente, conosceva mille lingue. Omar Sharif era un po’ strano. Una volta mi dice che gli faceva male il dente davanti: “Ma se vado dal dentista, qui lo estraggono e lo buttano”. Io mi sono spaventata, era famoso per lo spazio tra i due denti davanti: “Non farlo, mio Dio”. Poi ho capito che probabilmente stava scherzando».
“Mortacci” di Sergio Citti lo ricorda?
«Certo. Mortacci tua, yes! (ride). È stato un onore lavorare con quel cast: il dio del teatro Vittorio Gassman, Malcolm McDowell, Sergio Rubini, con cui poi ho girato Treno di panna».
Cosa le ha dato il cinema italiano?
«In America mi chiedevano perché preferissi il cinema italiano e io rispondevo che da voi i ruoli erano migliori, i copioni si basavano su storie di donne profonde. A Hollywood la ragazza doveva stare in braccio a Batman, all’eroe di turno. Il cinema italiano è stato una grande scuola. E ho vissuto i giorni migliori della mia vita. Per questo chiamo ogni settimana: perché voglio tornare».
A Roma ha girato con Woody Allen, To Rome with love.
«Aveva un modo di dirigerti morbido. Se doveva darti indicazioni, partiva da un complimento: “Va benissimo, ma potresti…”. Ricordo una scena con Alec Baldwin. Lui arriva e dice: “Bene, ma rifate la scena parlando più velocemente”. “Che significa?”, chiese una collega. E Alec: “Non significa niente, parla più veloce”. Allen sa come funziona la testa di un attore».
Il momento più bello e quello peggiore della carriera.
«Non c’è stato nulla di brutto. Se sei la protagonista in un film ti trattano bene. Ma, ad esempio, quando sono andata in Africa per un anno, avevo il cuore in tumulto. E quando ho girato Il grande fuoco ho perso una persona importante, e ho continuato a lavorare. Ma non posso lamentarmi di nulla, nella carriera».
Ayrton Senna è stato il grande amore della sua vita. Com’è cambiato nel tempo il ricordo che ha di lui?
«Ricordo tutto. È difficile parlare di una persona che è morta, perché c’è solo la mia interpretazione, la mia emozione, la mia storia. Lui non è qui per dare la sua versione. Non ho mai provato nulla di così forte e profondo nella vita. È stato il grande spartiacque: c’è un prima e un dopo nella mia vita, e dopo non è stato mai più lo stesso. Ci penso ogni giorno, e c’è sempre qualcuno o qualcosa che me lo ricorda. Un autista che ti dice: “Sai, ti ho visto con Ayrton a Trastevere”, o a Singapore, o a Montréal, o in Brasile. È sempre nella mia vita».
Le fa compagnia, oltre a procurarle dolore?
«Entrambe le cose. Ho da poco sentito una canzone degli anni Novanta, il cuore si è fermato. Quando faccio un film e devo pensare a una scena di dolore, penso a Ayrton. È un’emozione che è sempre appena sotto la superficie. È lì, sempre».
Il primo ricordo che ha di lui?
«Quando mi dissero il suo nome. Un amico mi fa: “Vieni a incontrare Ayrton Senna”, e io non riuscivo a capire il nome. Lui dice: “È un autista”. E io: “Ma un autista di limousine?”. Ci incontriamo nel backstage di Ferragamo, davanti ai fotografi. Lui guarda me, non l’obiettivo. Capisco, tolgo le scarpe e lui: “Grazie”. Mi rimetto le scarpe e vado nell’ufficio del mio agente. Arriva un tizio: “Mister Senna vuole invitare la signora Alt a cena”. E io dico: “No, ceno con il mio agente”. Ma l’agente dice: “No, vai con lui”. Io avevo fame, erano le sei, dovevo aspettare tre ore. Le ho aspettate, ed è cambiata mia vita. Sono arrivata al ristorante, una tavola piena di gente, e ho visto solo lui. L’universo si è aperto, un’emozione che non avevo mai sentito prima. Ho anche capito che sarebbe stata dura, e così è stato. (All’epoca Carol Alt era sposata con il giocatore di hockey Ron Greschner, ndr). Ne è valsa la pena. Ma questa è solo la mia versione della storia».
Il primo dicembre compie 65 anni.
«Sì. Mio Dio».
Se incontrasse oggi la ragazzina che era, che consiglio le darebbe?
«Le direi: mangia crudo. È importante mangiare bene per la salute e l’invecchiamento. Se avessi iniziato a vent’anni avrei avuto più energia, allegria, giovinezza. Ho iniziato a trentotto anni, quasi troppo tardi. Ma fa bene. E poi alla piccola Carol direi: non preoccuparti di quel che succederà. E non sposarti giovane».
Un regalo ideale per i suoi primi 65 anni?
«Recupero e salvo animali abbandonati. A me non serve nulla di materiale. Ma la compassione verso gli animali e i bambini, verso i più deboli, è importante. E quindi vorrei grandi donazioni al mio ente di beneficenza. Quella sarebbe davvero una grande gioia per me».