La Stampa, 16 luglio 2025
"L’AI non suscita emozioni la creatività si salverà"
Brachetti, con l’intelligenza artificiale è a rischio anche il trasformismo teatrale?
«La vera creatività non è a rischio perché l’uomo riesce a creare immagini che toccano la sfera emotiva, che l’AI non possiede perché lavora come un calcolo di probabilità. Inoltre l’abitudine di vedere effetti speciali generati dall’IA valorizza il suo contrario, il lavoro dal vivo: fa sognare più un telo di seta che si muove come il mare che un effetto tecnologico».
Ci parli di Macario, come lo incontrò e che ricordo ne ha?
«Lo conobbi dai Salesiani, perché facevo parte di un gruppo di allievi del Teatro Valdocco dove lui veniva tutti i giovedì. Poi nel 1978 feci un’audizione e mi prese per lo spettacolo “Oplà, giochiamo al varietà”, solo che nello stesso tempo mi chiamarono a Parigi. Così gli dissi: “Cumendatur, mi hanno chiesto di andare a Parigi”. E lui: Và, và a Parigi».
Che ruolo ha avuto la musica nella sua formazione e che importanza ha oggi nella sua vita?
«La ascolto quando vado in bici, circa venti minuti al giorno con quella elettrica. Nelle orecchie Torino intorno a me diventa jazz, reggae, rock. Quando con gli amici si combina di salire alla Sacra di San Michele ho una compilation su misura, per esempio so che quando affrontiamo l’ultima curva devo passare alla musica di Dracula per l’istante in cui si staglia al cielo la sagoma della Sacra: in quel momento immagino che il Conte si sia appena alzato».
E lei come lavora sulla voce, sul canto?
«Quando da ragazzo al Valdocco canticchiavo in camerino sentivo che i miei colleghi ululavano per prendermi in giro, così smisi. Poi è arrivata la pandemia e per passare il tempo ho deciso di seguire dei corsi one-to-one. In primo luogo ho scoperto che cantavo con le cosiddette false corde vocali, di cui neppure conoscevo l’esistenza. Adesso mi difendo niente male, soprattutto in “Cabaret”, che rifarò nei teatri anche la prossima stagione, mi sono preso una bella rivincita, visto che a vent’anni a Parigi dovevo farlo cantando “Welcome” in playback sulla voce di Joel Grey"».
Si sente a sua volta imitato?
«A casa ho 450 costumi e continuo a fare esperimenti. Da quando iniziai, nel 1979, mi hanno rubato un sacco di tecniche, di accorgimenti, di passaggi, però nel mio lavoro non conta tanto stupire, comanda la drammaturgia, la forza consiste nel perché a un certo punto un personaggio si trasforma in un altro. Se in un mio show Judy Garland si srotola e diventa Liza Minnelli l’applauso arriva non solo per l’abilità, ma perché Liza è figlia di Judy. Questo è il mio software e non me lo può rubare nessuno».
Al di là della città che si trasforma a seconda della musica che ascolta in cuffia, come ha visto mutare Torino?
«C’era anche nella città operaia una creatività diffusa, nella moda, nel cinema, nell’arte, nella cucina, ma un velo di smog copriva tutto. Poi dal 2006 il cielo si è pulito. Torino è la capitale del jazz, ci sono associazioni, circoli, abbiamo una delle due o tre scuole che in Italia insegnano commedia dell’arte, l’Atelier di teatro fisico di Philip Radice. Su quattro scuole di circo italiane due sono qui, e una è la sola ad avere titolo universitario, il Cirko Vertigo».
Non prova mai senso di insicurezza in città?
«No, anche perché sto in centro. Percepisco qualche disagio, ma a Parigi è molto peggio e vedo più homeless a Los Angeles o a Montreal che a Torino».