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 2025  luglio 15 Martedì calendario

Davide e Simone Mazzinghi: «Nostro padre con la bici finì addosso a Bartali (e Gino gli regalò i suoi guanti)»

«La vita del babbo meriterebbe un film, non solo per il campione che è stato». Davanti alle cinture mondiali e agli altri trofei che fanno del soggiorno della casa di Cascine di Buti un’Arca della Gloria, a David e Simone Mazzinghi brillano gli occhi nel ricordo di Sandro. Sì, il babbo – detto e ripetuto alla toscana – è Sandro Mazzinghi, il pugile del «popolo», il grande rivale di Nino Benvenuti. Anni 60, l’Italia voleva sognare e Mazzinghi la aiutò: due volte iridato, 69 incontri – l’ultimo a 40 anni – con 64 successi, 3 sconfitte e 2 no contest.
Aveva il pugno duro – 42 k.o. inflitti —, il cuore d’oro e un coraggio da leone che gli è servito a vincere pure il match più duro: riprendersi da un incidente d’auto nel quale aveva perso la moglie, sposata dieci giorni prima. David e Simone sono pronti a calarsi in «Era nostro padre». Anzi: «Era il nostro babbo».
Sandro è mancato nel 2020, a 82 anni: che cosa rimane di lui?
«Una pagina di Facebook, con i messaggi dei tanti tifosi che ancora scrivono. Da tre anni organizziamo poi il Premio Mazzinghi: l’hanno già ricevuto Mario Cipollini, Marcello Lippi, Giancarlo Antonioni. Infine c’è la nostra palestra di Pontedera che continua la sua tradizione. Abbiamo praticato vari sport, ma non il pugilato: ci aveva dissuaso. Di mestiere siamo optometristi: il babbo faceva gli occhi neri, noi li sistemiamo».
La morte di Vera, la prima moglie. Come vi siete rapportati con questa sua tragedia?
«Per lui fu una botta enorme, noi gliene abbiamo parlato il meno possibile. Sandro era riflessivo: aveva momenti in cui si estraniava, la mente tornava anche alla disgrazia. Ma ha reagito, sapeva sempre trovare vie d’uscita».
Vostra mamma come visse quella storia?
«Si incontrarono nel 1967 e si sposarono nel 1969. All’epoca conosceva già il nome Mazzinghi ed era al corrente delle vicissitudini del babbo. Quindi il suo supporto è stato totale».

Sandro era un guerriero.
«Un guerriero nella vita e nello sport. Uno che non si spezzava. Prendeva tutto di petto, doveva ottenere un risultato: ce l’avrebbe fatta in qualunque cosa si fosse cimentato».
Guido era qualcosa di più di un fratello?
«Era un po’ quel padre che in fondo non aveva mai avuto. Nostro nonno non stava bene: gli fu amputata una gamba e subì un declino sia fisico sia morale. Il babbo ne soffrì».
Oltre al fratello Guido e al promoter Vittorio Strumolo la terza figura chiave fu Adriano Sconcerti, il suo manager.
«Con Sconcerti l’intesa era perfetta. E i tre formavano un triangolo d’acciaio».
Sandro non temeva il dolore?
«No, non aveva paura. Più le prendeva e più le dava. Una scorza così l’aveva di natura, poi la vita l’ha forgiato. Da bambino ha affrontato la povertà. Andava a pescare nell’Arno: qualche pesce lo teneva, altri li vendeva. A casa, comunque, non c’era nulla. Nostra nonna faceva il bucato per famiglie benestanti: veniva ripagata con pasta, ceci, fagioli. Ma i figli erano cinque, spesso non mangiava per lasciare a loro. Babbo se ne accorgeva e diceva: “Mamma, un giorno ti farò diventare una regina”».
Di recente è mancato Benvenuti: la rivalità con Nino era più costruita dai giornalisti che vissuta da loro due?
«Senza dubbio, tra Sandro e Nino c’era rispetto. Il dualismo è sempre piaciuto: Bartali-Coppi, Gimondi-Motta, Rivera-Mazzola, quindi pure Benvenuti-Mazzinghi. Babbo era un superwelter e lo è stato anche Nino. Poi Benvenuti è passato nei medi, gli era più facile restare nel peso. Sarebbe stato ancora più bello non farli incontrare e lasciarli liberi nelle rispettive carriere: l’Italia avrebbe avuto due campioni come nessun altro Paese. Quanto ha sofferto a perdere due volte contro Nino? Come chiunque che è campione, sente di esserlo e finisce sconfitto».
Sandro espressione del popolo, Benvenuti della borghesia.
«Vero. E forse aveva più tifosi lui. Era il pugile della gente normale che si alza presto alla mattina per andare a lavorare. Benvenuti, invece, era più sofisticato di suo».
L’amicizia con Bartali e i guanti regalati da «Ginettaccio».
«Aveva 10 anni. Trovò una bici abbandonata. Non avendo soldi per comperarne una nuova, la prese e la mise a posto. Un giorno, scendendo dal ponte napoleonico di Pontedera, gli si ruppero i freni. Sbatté contro una persona che usciva da un negozio: era Gino Bartali. “Perché vai così veloce?”. “Perché voglio diventare forte come lei”. Bartali tirò fuori due guantini: “Me li ridarai quando sarai un campione”. Una dozzina di anni dopo il babbo divenne campione del mondo e volle restituirglieli. Ma Bartali glieli lasciò. Se avesse insistito, Sandro sarebbe diventato anche un grande ciclista».
Con Giovanni Borghi e la Ignis fu un sodalizio a vita.
«Il commendatore gli voleva bene, come Enzo Ferrari che aveva nel cuore certi piloti. Il babbo fu suo ambasciatore nel mondo: quando conquistò il titolo contro Dupas e fece sua pure la rivincita a Sydney, la Ignis vendette negli Usa un milione di frigoriferi, alla faccia della Philco. Borghi rivedeva in quel pugile le sue origini umili e la sua voglia di arrivare».
Fu anche cantante e scrittore.
«Cantare era un hobby. Tra 1966 e 1967 scrisse Almeno il sogno e Fuoco spento, orchestrate da Gianfranco Intra. Fu un successo. All’epoca c’era Salvatore Adamo, italo-belga, in tournée in Italia. Gli proposero di unirsi a lui e a Pippo Baudo: nelle serate cantava pure Sandro».
Il Mazzinghi scrittore, invece?
«Teneva un diario. Nel 2003 lo trovammo e gli proponemmo di farne un libro. Nacque Sul tetto del mondo: diario di un pugile e dei suoi ricordi. Ma la prima biografia, nel 1993, fu Pugni amari: vinse il Premio Bancarella. I pugni sono tutti amari, ma quelli della vita spiegano che il ring vero non è tra quattro corde».
Il match del rientro, a 39 anni.
«Era il 1977, voleva una sfida con sé stesso. Nel 1970 si era ritirato, ma certe passioni non muoiono mai. Si era sempre tenuto in allenamento, così gli fu proposto di tornare a Castellanza negli studi di Antenna Tre, l’emittente di Renzo Villa dove lavorava Enzo Tortora. Combatté contro David Hatkins. Il match andò in differita, ma grazie a una “catena” che coprì tutta Italia fu visto da 10 milioni di persone».
Franco Evangelisti, all’epoca presidente della Federboxe, fece di tutto per ostacolare il ritorno.
«Babbo e zio Guido andarono da Giulio Andreotti, Evangelisti era il suo braccio destro. Andreotti disse: “Mazzinghi, che cosa le serve?” (mutuando il celebre “A Fra’, che te serve?” che dispensava al sottoposto, ndr). Sandro e Guido risposero: “Lei come collaboratore ha un uomo più duro degli asini della Garfagnana”. “Che cosa ha combinato stavolta?” aggiunse Andreotti. Nel giro di 48 ore ebbe il tesseramento. Avrebbe disputato altri due match, lasciò dopo quello del 4 marzo 1978 contro Jean Claude Warusfel: a 40 anni la legge impediva di proseguire».
Alla Stazione Centrale di Milano conobbe un clochard, tale Giuanìn: però si faceva chiamare Sandro.
«Dopo aver battuto Ki Soo Kim lo cercò per regalargli i guanti di Bartali. Ma non lo trovò. Rinvennero il clochard morto: si copriva con la pagina della Gazzetta dello Sport che mostrava l’articolo di Sandro campione. Il poveretto aveva scelto di chiamarsi come lui: aveva capito che il babbo aveva anche un gran cuore».