Avvenire, 15 luglio 2025
I migranti come “schiavi” sui pescherecci di Taiwan
Gli ultimi quattro mesi trascorsi in mare aperto hanno lasciato su Silwanus Tangkotta un segno indelebile. Mentre apre la mano a ventaglio, il lavoratore indonesiano mostra la terribile eredità del lavoro su un peschereccio di Taiwan: due dita mozzate. Non si è trattato di un incidente irrimediabile, ma di un a successione fatta di soprusi, noncuranza (dolosa), abusi e condita da un’atroce beffa finale. Silwanus, 38 anni, ha raccontato la sua storia alla Cnn. L’uomo ha trascorso quattro mesi di fila a bordo di un peschereccio nell’«implacabile Pacifico», lavorando su turni lunghi anche 18 ore, nell’isolamento più totale: a bordo niente collegamento Internet, nessuna possibilità di comunicare con casa. Durante la traversata, a causa di un’ondata violenta, il pescatore ha sbattuto contro una porta metallica scorrevole, schiacciandosi il medio e l’anulare della mano sinistra. Nonostante avesse bisogno di cure immediate, il capitano dell’imbarcazione – ha raccontato – si è rifiutato di rientrare in porto. Per oltre un mese, Tangkotta ha sopportato il dolore lancinante, costretto a fasciare la ferita con del nastro adesivo.
Finalmente, dopo lo sbarco, il migrante è stato ricoverato in ospedale a Taiwan. Per le sue dita era, però, ormai troppo tardi. Quindi la beffa finale: gli è stata immediatamente consegnata una lettera di licenziamento e rifiutato qualsiasi risarcimento per l’incidente subito in mare.
Quello di Silwanus Tangkotta non è un caso isolato. Come sottolinea la Cnn, l’isola viene spesso presentata come un faro di democrazia nel frastagliato panorama politico asiatico. Eppure «il trattamento riservato ai lavoratori migranti solleva forti dubbi sul suo impegno a favore dei diritti dei lavoratori migranti». Dal 2020, il Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti ha puntato più volte il dito contro l’industria della pesca d’altura di Taiwan, denunciando il ricorso massiccio al lavoro forzato. Non solo; il settore è attraversato da «problemi come il reclutamento ingannevole, i salari trattenuti, la violenza fisica esercitata ai danni dei migranti e gli orari di lavoro estremi». Durissimo il giudizio di Greenpeace: i lavoratori migranti impiegati nel settore ittico «soffrono la fame e la disidratazione, vivono in condizioni degradanti e antigieniche, sono sottoposti a violenza fisica e abusi verbali, viene loro impedito di lasciare l’imbarcazione o di rescindere i contratti e spesso non ricevono i salari promessi o vengono detratti illegalmente dalle loro retribuzioni per vitto e alloggio». Ma non basta: un rapporto della stessa Ong ha “monitorato” 12 pescherecci taiwanesi tra il 2019 e il 2024. Gli esiti dell’indagine sono stati allarmanti: tutte le 12 imbarcazioni seguite «sono state coinvolte in pratiche illegali, come la trattenuta di documenti dei migranti e l’inganno dei lavoratori» e su oltre il 90% delle imbarcazioni «sono stati scoperti abusi ai danni dei lavoratori più vulnerabili, intrappolati in veri e propri cicli di schiavitù per debiti». Quello della pesca non è un comparto minore dell’economia taiwanese. Anzi. L’industria ittica di Taiwan è un attore significativo a livello globale, con una produzione media annua intorno alle 765.000 tonnellate nella sola pesca d’altura, e con esportazioni che hanno raggiunto quota 1,75 miliardi di dollari nel 2023. Sempre nello stesso anno, Taiwan – che vanta una flotta di oltre 2.000 pescherecci – si è classificata al settimo posto nella classifica mondiale degli esportatori di prodotti ittici. Giappone, Stati Uniti, Cina e Thailandia sono i suoi principali mercati. Sono circa 20mila i lavoratori migranti, principalmente indonesiani e filippini “assoldati”.
Adrian Dogdodo Basar è un ex pescatore migrante indonesiano. Nel 2023 ha visto uno dei suoi amici più cari amici morire a bordo di un peschereccio taiwanese. Mentre pescava nell’Oceano Pacifico, il suo amico – ha raccontato – si è ammalato gravemente. Anche in questo caso, il capitano si è rifiutato di tornare in porto. Quando finalmente l’imbarcazione è rientrata, per il suo amico non c’era più nulla da fare. Adrian ha raccontato di essere stato punito con privazioni alimentari e minacce di detrazioni salariali quando ha chiesto che il corpo del suo compagno di lavoro venisse restituito ai familiari. «Abbiamo chiesto al capitano di andare al porto più vicino per rispedire a casa il corpo, ma ce l’ha negato. Quando ho iniziato a protestare, non mi è stato dato cibo», ha raccontato. Secondo un’indagine promossa dall’organizzazione The Pew Charitable Trusts, ogni anno si verificano più di 100mila decessi legati alla pesca. Non solo: esiste una possibile distorsione dei dati dato che «nessun governo o organizzazione ha raccolto statistiche precise sul numero di pescatori che muoiono sul lavoro».