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 2025  luglio 14 Lunedì calendario

Intervista a Edoardo Pesce

Un tempo si diceva «gigante buono». E, per Edoardo Pesce, romano, classe 1979, la definizione andrebbe anche bene, perché è alto e solido, con gli occhi azzurro trasparente che comunicano una quiete quasi angelica. Poi, però, è successo che molti registi abbiano colto, di lui, soprattutto l’aspetto possente, l’aria massiccia che lo ha fatto essere, tante volte, il perfetto villain: «Delle etichette non mi è mai importato niente – spiega -, perché penso che un attore abbia sempre la possibilità di liberarsene. Sono stato spesso antagonista, violento, coatto, criminale, mi sono divertito. In fondo pure quell’attore americano, Joe Pesci, ha costruito un’intera carriera su questo tipo di ruoli».
Quando ha capito che voleva fare l’attore?
«Quando ho iniziato a fare teatro, ho seguito corsi con Garinei, poi con Isabella Del Bianco, presso il Teatro Azione, lì ho capito che il palcoscenico era un terreno su cui sentivo di potermi esprimere, una bolla in cui poter essere come volevo. Un po’ come quando si sceglie uno strumento musicale, a uno piace la chitarra, a un altro il piano…»
Quando ha capito che era arrivata la svolta?
«Non credo nelle svolte e non penso che ci sia un prima e un dopo qualcosa. Uno costruisce il suo percorso, passo dopo passo, pian piano. Ho iniziato quasi per gioco, poi mi sono reso conto che il mio era un mestiere, sono 20 anni che faccio l’attore e ho ancora un po’ di remore nel definirmi tale. Più che altro mi sento un mestierante».
In che senso?
«È un termine che mi convince, è più dignitoso, perché si riferisce all’artigianato. Gli artigiani lavorano con oggetti di vario tipo, io lavoro con il testo, con il mio corpo e con me stesso».
Cosa ha rappresentato l’incontro con Matteo Garrone che l’ha scelta per Dogman?
«È arrivato dopo Fortunata di Sergio Castellitto, credo che l’avesse visto. Serviva un interprete con un po’ di esperienza, perché Marcello Fonte era un esordiente, insomma io ho fatto un po’ da “supporter” come dicono gli americani. Poi, certo, ci voleva pure uno che sapesse recitare, che fosse capace, a livello tecnico, che conoscesse il set. L’esperienza serve sempre. Se ce l’hai, stai già un passo avanti».
Dalle storie basate soprattutto su violenza e devianza, è riuscito a passare alle commedie. Salto difficile?
«Si, un po’ sì, sulle prime non è stato semplice risultare credibile».
Adesso in Unicorni (nei cinema dal 18) di Michela Andreozzi, interpreta Lucio, padre, dolce e illuminato, di un bambino che si chiama Blu e adora vestirsi da femmina. Cosa le è piaciuto di questa prova?
«Lucio è un progressista, lavora in una radio, difende i diritti, ne parla continuamente, poi, però, nella vita privata, si trova a dover affrontare un ambiente non ancora preparato per accogliere differenze, diversità. In più si trova a fare i conti con la paura che suo figlio possa soffrire, con la voglia di proteggerlo da qualsiasi possibile ferita. È un film che mette in discussione più la visione dei genitori che quella dei bambini».
Perché è importante raccontare una storia come questa?
«In un Paese come il nostro mi sembra che questo tipo di situazioni siano state poco descritte. Sono gli adulti che si sentono a disagio. I bambini sono molto più fluidi, non hanno pregiudizi, nelle scuole il melting pot con i figli di immigrati esiste già da un bel po’, io lo vedo, stanno tutti insieme, tranquilli, senza problemi. Forse sono un po’ ipersensibili, questo sì, se vengono presi in giro o bullizzati, sembra che poi non abbiano le capacità di venirne fuori, che siano rovinati per tutta l’esistenza... Nel film i compagni di scuola di Blu sanno che a lui piacciono i vestiti da femmina, tutto nasce quando, in occasione della recita scolastica, lui dice di voler fare la Sirenetta. E lì che esplode la questione, perché diventa pubblica e la devono gestire i grandi».
Se, nella vita reale, le capitasse di essere Lucio, come si comporterebbe?
«Come lui, penso proprio di sì, anche se noi facciamo parte di un’altra generazione e abbiamo ricevuto un’educazione diversa. Nella mia famiglia c’è stato un cugino che ha fatto outing, ma molto tardi, proprio per via di un certo modo di pensare familiare»..
Come reagirebbe suo padre se, a fare outing, fosse lei?
«Non so, dovrei dirglielo con un po’ di attenzione, anche se poi so che accetterebbe. È di un’altra epoca, bisogna anche rispettare un certo modo di pensare, un certo linguaggio, senza imporre il proprio a tutti i costi».
Ha fatto un film, bellissimo, El paraiso, in cui è molto figlio di mamma. Lontano o vicino alla realtà?
«Mia madre è tutto il contrario di quella del film, non mai stata chioccia, a noi figli ha lasciato la massima libertà».
Che cosa ha detto quando lei si è messo a fare l’attore?
«All’inizio guardava, non si pronunciava, ha visto Dogman, ha commentato “certo, è tanto violento, ma tu sei bravo”. Sono andato via di casa a 24 anni, vivo di questo mestiere da quando ne avevo 27, sono contento, indipendente, mi sento un privilegiato, tutte cose che a una madre credo facciano piacere».
Il cinema italiano sta attraversando un momento difficile dopo il blocco del tax-credit. Cosa bisognerebbe fare secondo lei?
«Non sono molto attivo politicamente, però mi informo. Mi sembra che quello che è successo sia un po’ il frutto di alcuni finanziamenti selvaggi, fatti negli anni precedenti, perché, a un certo punto, con questa cosa del tax credit mi sembra che tutti si fossero messi a fare cinema, pure gli imprenditori, pure chi aveva un hotel e doveva scaricare le ricevute, c’è stata veramente una gestione da Far West dei soldi pubblici… Dopo tre o quattro anni, come uno tsunami, quest’onda c ’è ritornata tutta addosso, insomma, un po’ di ragione al governo ce l’hanno, gli errori sono stati fatti prima».
Cosa sta preparando adesso?
«Stiamo costruendo uno spettacolo da zero, io e Lallo Porcacchia siamo gli interpreti, Valentina Esposito è l’autrice e la regista, una persona veramente preparatissima, ha lavorato per vent’anni con Fort Apache, una compagnia che lavora con i detenuti, ex o in semilibertà. L’idea di partenza è raccontare la vita di Lallo, i suoi trascorsi illegali, ma la vicenda è una scusa per fare un ritratto di umanità quasi faustiana, di un uomo alla ricerca del potere. È una cosa impegnativa».