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 2025  luglio 14 Lunedì calendario

"I libri non hanno regole. Per fare l’editore sono diventato nomade"

Un buon editore è un nomade, dice Luigi Brioschi, mentre siede nel suo ufficio milanese, a due passi dall’Arco della Pace. Ha da poco compiuto 84 anni, due terzi dei quali trascorsi a occuparsi di libri: prima in Rizzoli, poi in Longanesi, infine in Guanda, di cui è tuttora presidente, dopo esserne stato azionista e direttore editoriale. Veste una giacca in garza blu scuro e una camicia inappuntabilmente stirata. Il nodo della cravatta, di maglia, è volutamente allentato.
A guardarla, tutto si direbbe tranne che lei sia un nomade.
«E invece, quando si scelgono i libri, bisogna esserlo: mai obbedire alla fedeltà a un genere, a un’area o a un Paese».
Qual è la regola da seguire?
«La qualità».
Facile a dirsi. Tradotto nella pratica?
«Apertura totale, senza pregiudizi. L’editoria è un’attività ben strutturata. Ma si dà il caso che il libro tenda a essere refrattario alle regole: di qui la necessità di aprirsi, allungando lo sguardo e cogliendo l’occasione, ovunque essa sia».
Il primo esempio?
«Nel mio caso, è inevitabile: Luis Sepúlveda. Lo scoprii nel 1992, ma non attraverso un agente. Lessi una recensione di un suo libro sul settimanale francese L’Express, e la cosa che mi colpì fu il titolo: Il vecchio che leggeva romanzi d’amore. Mi feci mandare il libro e mi incantò».
I libri di Sepúlveda, in Italia, hanno venduto più di 7 milioni di copie.
«Se dicessi di averlo previsto sarei un bugiardo, però ci credetti subito. Lucho è stato la punta di diamante di una generazione di scrittori sudamericani ben diversa da quella che l’aveva preceduta».
Eravate amici?
«Era naturale, per lui l’amicizia era la cosa che più contava, e non a caso: aveva vissuto sulla sua pelle il peso della dittatura, perdendo molti amici. Li ricordava spesso, era un narratore orale straordinario».
Quanto conta l’aspetto umano nell’editoria?
«Molto: il rapporto personale è decisivo in tutti i momenti della partita».
Lo è stato anche nel suo caso?
«Certo, da subito. Mi avvicinai all’editoria da studente in legge, frequentando casa di Elio Vittorini grazie alla sua ultima compagna, Ginetta Varisco, prima cugina di mia nonna».
Che ricordo ha di Vittorini?
«Di un uomo che parlava poco, ma il suo era sempre un silenzio cordiale».
Fu grazie a lui che entrò nell’editoria?
«No. Anche se l’idea in famiglia era che Vittorini mi portasse in Mondadori. E per un po’, forse, ci sperai anch’io. Ma volevo finire l’università; e poi, quando lui morì, ero già entrato in Rizzoli».
Chi la aiutò allora?
«Il poeta Giorgio Cesarano, che per un periodo fu dirigente rizzoliano, e Oreste Del Buono: quest’ultimo conosciuto proprio grazie a Vittorini».
I suoi esordi furono come lettore e traduttore.
«Esperienza utilissima: tradurre, come dice Calvino, è il vero modo di leggere un testo».
Che faceva in Rizzoli?
«Iniziai come editor poi passai alla segreteria letteraria – in sostanza, l’ufficio diritti. Per un certo periodo, capo ufficio stampa; infine, con l’uscita di Mario Spagnol, ebbi la cosiddetta direzione letteraria».
Le scoperte di quegli anni?
«Il primo nome che mi viene in mente è J. M. Coetzee: era agli esordi, ma intuii immediatamente che era un autore di rottura. E poi La vita, istruzioni per l’uso di Georges Perec».
Lui però in Italia era già apprezzato, anche grazie a Italo Calvino.
«Quel romanzo era un gran libro, ma slittava sempre per via dei costi di traduzione. Fu proprio Calvino a chiamarmi un paio di volte per chiedermi: “Potete pubblicare il mio povero amico?"».
Scrittori italiani?
«Riportai in Rizzoli Giovanni Arpino. Ma negli anni precedenti, sotto la guida di Mario Spagnol, ne pubblicammo molti, a cominciare da Landolfi, Manganelli, Meneghello».
Nel 1984, fu proprio Spagnol a portarla in Longanesi.
«Era stata appena acquisita da Luciano Mauri: fu il primo passo per la costruzione di quello che sarebbe diventato il gruppo Gems, sotto la presidenza di Stefano Mauri».
Due anni dopo prendeste Guanda, uno dei marchi storici dell’editoria.
«Ma di cui era rimasto ben poco in catalogo. Per rilanciarla, decidemmo così di aprirci a tutto ciò che ci provocasse».
Non è un caso che uno dei primi successi fu L’età di Lulù di Almudena Grandes.
«Lo presentavano come narrativa erotica, ma era molto di più: il romanzo simbolo di una stagione, il post-franchismo. Solo con quel libro, vendemmo centinaia di migliaia di copie».
Autori di lingua spagnola ne avete pubblicati parecchi. Da Javier Cercas ad Aramburu.
«In Italia correva voce che Patria fosse un libro sul terrorismo basco. In realtà, era il romanzo di una comunità lacerata dall’odio e minata dal fanatismo. Un’opera mirabile, credo fummo i primi a comprarla in Europa».
Gli anni Novanta, per Guanda, furono anche quelli di Irvine Welsh e Nick Hornby.
«Seppi di Trainspotting quando arrivai a Londra per la Book Fair. Cercai di andare a vedere una pièce ma era tutto esaurito. Decisi di leggerlo. E scoprii un romanzo che terremotava la lingua inglese».
Perché in Italia non era stato acquistato?
«Non ne ho le prove, ma credo abbiano temuto di non riuscire a tradurlo. Noi l’affidammo a Massimo Bocchiola, che gli diede una voce congeniale».
E con Hornby come andò?
«Partimmo con Alta fedeltà, fu un successo. Poi pubblicammo il suo esordio, Febbre a 90. In Italia era considerato “solo” un libro sul calcio: nessuno lo aveva acquisito. Ma non era questo: era una deliziosa storia di formazione».
Mi confessa un rimpianto o un fallimento?
«Paul Auster: lo pubblicammo nel 1990, partendo da un romanzo bellissimo, La musica del caso. Facemmo tutto il possibile, non funzionò».
Dal suo racconto sembra che le scoperte contino più del lavoro di editing.
«La scoperta è la parte più tentante e rischiosa, ma questo resta un mestiere in cui l’interazione con gli altri contribuisce in modo inaspettato».
Me lo racconti con un titolo.
«L’esordio di Catherine Dunne, scoperta da un nostro grande autore, Roddy Doyle. Il titolo inglese era In the Beginning. Per settimane mi confrontai con la traduttrice per trovarne uno più efficace. Fino a quando mi chiamò e mi disse: “Ce l’ho”. Uscimmo con La metà di niente. Fu un successo».
Ha mai avuto la tentazione di scrivere?
«No. Per me l’unica forma letteraria che conta è l’attività di editore».
La maggior parte dei suoi colleghi ha scritto di sé.
«La mia ambizione – con le dovute proporzioni – sarebbe essere ricordato nello stesso modo a cui aspirava uno degli astri inarrivabili di questo settore, Peter Suhrkamp».
Cioè?
«È stato capace di portare al successo libri che non lo chiedevano».