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 2025  luglio 13 Domenica calendario

La narrativa della bomba

Quando nel 2006 uscì il pur splendido romanzo postapocalittico La strada di Cormac McCarthy, difficilmente chi apparteneva alla generazione nata tra la metà degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta si entusiasmò al pari dei più anziani o dei giovanissimi. Questo perché eravamo stati educati al dopo-apocalisse da altre opere, arrivate prima, narrativamente più ampie e d’impatto più profondo. Erano cartoni animati, «roba per bambini», e per guardarli bastava accendere la tv e cercare il canale locale – diverso da regione a regione, a volte da provincia a provincia – che li trasmetteva. Si trattava di Ken il guerriero, tratto dal fumetto omonimo di Buronson e Hara, uscito a partire dal 1983, e Conan il ragazzo del futuro, ideato nel 1978, a partire dal romanzo The incredible tide di Alexander Key, da un Miyazaki che avrebbe fondato lo Studio Ghibli solo sette anni più tardi. Due opere diversissime – nella prima il mondo post-nucleare era un luogo di ultraviolenza e dominio del più forte; nella seconda un’utopia in cui la rarefazione della presenza umana aveva in fondo migliorato le cose – ma unite da una sensibilità nel trattare il tema della bomba, e del dopobomba, che potevano avere solo artisti provenienti dall’unico Paese che il trauma dell’atomica l’aveva vissuto davvero: il Giappone.
Molti anni dopo, quando i manga sarebbero venuti di moda, con la conseguente pubblicazione di diversi classici dimenticati, avremmo scoperto anche l’apice fumettistico delle narrazioni sull’atomica: Gen di Hiroshima di Keiji Nakazawa, egli stesso hibakusha – vale a dire superstite dell’olocausto nucleare —, pubblicato in Giappone tra il 1973 e il 1987, ma arrivato da noi solo nel 2014. Un capolavoro che nel suo uso dello stile «cartoonesco» per raccontare con maggior efficacia rispetto al realismo gli allucinanti orrori del dopobomba, dalle persone liquefatte a quelle coperte di ustioni su tutto il corpo, anticipò opere fondamentali come il Maus di Art Spiegelman, dedicato alla Shoah.
Il fumetto, in effetti, se la sarebbe sempre cavata benone nel trattare il tema della bomba atomica, sia che lo facesse in modo drammatico come in Gen di Hiroshima, sia che usasse la wasteland postnucleare per l’ambientazione di fondo come in Ken il guerriero, sia che ci ironizzasse sopra, come avviene in Cronache del dopobomba del nostrano Bonvi, peraltro assai avanti sui tempi avendo debuttato nel 1973, lo stesso anno di Gen di Hiroshima e ben otto anni prima di Mad Max II di George Miller (da noi Interceptor, il guerriero della strada), il film che avrebbe dato popolarità mainstream al genere postnucleare e che ne avrebbe definito per sempre i parametri estetici e tematici.
Se il fumetto ha dato il suo meglio col dopobomba – si ricorderanno anche la brillante critica del militarismo When the Wind Blows dell’inglese Raymond Briggs (1982) e il recente La strada di Manu Larcenet, che reinventa con efficacia le ambientazioni di McCarthy —, il cinema ha fatto scuola nel parlare del prima, del durante e del «come», anche senza entrare in scenari post-apocalittici. È già del 1964 Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick, che ci avvertiva su quanto l’escalation nucleare possa essere dietro l’angolo, e da lì la lista di film «a tema bomba» che hanno lasciato il segno è piuttosto lunga: si va da The day after di Nicholas Meyer (1983), film invero mediocre (fu del resto prodotto per la tv) ma d’impatto incalcolabile nel mostrare alle masse le implicazioni del pericolo nucleare – annientamento integrale reciproco, niente di meno – al recente Oppenheimer di Christopher Nolan, che racconta la tormentata vicenda del padre della bomba e il boicottaggio che subì quando decise di dedicarsi al pacifismo e al disarmo; da Wargames, sempre del 1983, in cui John Badham raccontava la storia di un giovanissimo hacker che per poco non scatena una guerra nucleare, a Hiroshima mon amour, in cui Alain Resnais riesce nella non facile impresa di romanticizzare l’ancora sanguinante Hiroshima degli anni Cinquanta, fino a Rapsodia in agosto del sommo Kurosawa, che racconta con grande delicatezza la storia di una sopravvissuta vista attraverso la lente dei suoi nipoti, del tutto estranei al dramma.
Se cartoni animati, fumetti e film hanno portato avanti un buon racconto della minaccia nucleare, e anche il videogioco ha i suoi capisaldi – la serie Fallout su tutti, che ha dato anche origine a una serie tv non all’altezza del gioco – è nel romanzo che la riflessione attorno al tema si è spinta più lontano e, come quasi sempre accade, lo ha fatto da prima. Da molto prima, se si pensa che il primo romanzo a descrivere gli effetti devastanti di una detonazione nucleare, The Man Who Rocked the Earth, realizzato a quattro mani dallo scrittore Arthur C. Train e dall’inventore Robert W. Wood, è del 1915, trent’anni prima dello sgancio di Little Boy. E volendo ci si può spingere indietro di ancora un anno: nel 1914 esce La liberazione del mondo di H. G. Wells, che già presenta il concetto di bombe atomiche, sebbene gli effetti siano differenti da quelle reali (invece di distruggere città e abitanti, rendono questi ultimi irrazionali e folli).
Dopo che le esplosioni di Hiroshima e Nagasaki scioccarono il mondo, i romanzi a tema nucleare e postnucleare si moltiplicarono, una tendenza che sarebbe solo andata ad aumentare con l’acquisizione della bomba da parte dei sovietici e la successiva corsa agli armamenti delle due parti, coinvolgendo anche scrittori normalmente alieni alla fantascienza, all’ucronia e alla distopia. Fu il caso del grande autore tedesco Arno Schmidt, che nel 1957 diede alle stampe La repubblica dei dotti, che racconta una Terra del 2008 ormai resa invivibile dalla guerra nucleare, fatti salvi un paio di luoghi protetti, nascosti e invero assai inquietanti per gli esperimenti che vi si svolgono. È del 1959 invece Un cantico per Leibowitz, vincitore del premio Hugo, in cui Walter M. Miller Jr. racconta le peripezie di nuovi monaci postnucleari impegnati nell’arduo compito di preservare le conoscenze umane dopo l’apocalisse.
Negli anni Sessanta la narrativa postnucleare non smette di proliferare, e nel 1965 arriva anche il contributo del grande Philip K. Dick, con Cronache del dopobomba (questo il titolo italiano, poi ripreso da Bonvi per i suoi fumetti, laddove il titolo originale – voluto dagli editor – era Dr. Bloodmoney, or How We Got Along After the Bomb, con un chiaro ammicco al capolavoro di Kubrick uscito l’anno prima). Vale la pena soffermarsi nel 1965 perché è anche l’anno d’uscita del primo romanzo post-nucleare italiano, H come Milano di Emilio de’ Rossignoli: la città colpita dalla bomba s’intuisce dal titolo, e se i risultati non differiscono dai cliché del genere, è opportuno considerare che a metà anni Sessanta il genere medesimo era ancora in via di formazione definitiva. Si effettuerà qui una precisazione: sono esclusi da questa rassegna i romanzi post-apocalittici in cui la fine della civiltà non è causata dall’atomica, come i vari La nube purpurea di Shiel, Cecità di Saramago, Sfacelo di Barjavel o, per l’Italia, Dissipatio H. G. di Morselli.
Il genere postnucleare prospera anche negli anni Settanta e Ottanta, di pari passo con la guerra fredda: è del 1971 La falce dei cieli di Ursula LeGuin, finalista ai premi Hugo e Nebula e vincitore del Locus, in cui alcuni proprietari terrieri francesi si salvano dalla bomba grazie al fatto che si trovano in una cantina (va da sé piena di ottimi vini) prima di uscire in un mondo devastato e far rinascere una società di tipo rurale. Scenario simile a quello della Germania postnucleare degli Ultimi bambini di Schewenborn di Gudrun Pausewang, autrice tedesca che ha trattato il tema anche nel romanzo per ragazzi Dopo la catastrofe.
Nel campo della narrativa per i più giovani, impossibile non segnalare quel piccolo classico strappalacrime che è Il gran sole di Hiroshima di Karl Bruckner, in cui si raccontano le terribili malattie – in questo caso la leucemia – causate dalle radiazioni. Testo utile anche a ricordare che, sì, bomba e dopobomba hanno titillato l’immaginazione di tanti autori di speculative fiction, ma le tragedie di Hiroshima e Nagasaki sono state reali.
Doveroso allora concludere la panoramica con quattro testi fondamentali sgorgati dalla realtà del bombardamento atomico: La pioggia nera di Ibuse Masuji, che narra le vicende di diversi abitanti di Hiroshima dopo l’esplosione e sotto la pioggia del titolo, quella radioattiva; lo straziante Diario di Hiroshima di Michihiko Hachiya, che segue il suo autore, medico che per due mesi lavorò nella zona colpita dalla bomba, prendendosi cura di feriti e ustionati; le Note su Hiroshima di Kenzaburo Oe, nato dall’incontro del Nobel con vari sopravvissuti alla tragedia; e ancora, uscendo dal Giappone, L’ultima vittima di Hiroshima, carteggio tra il filosofo tedesco Günther Anders e il pilota Claude Eatherly, che a 27 anni premette il bottone per lo sgancio della bomba e per tutta la vita fu devastato dai sensi di colpa, fino a venire internato in un ospedale psichiatrico, terminando i suoi giorni nell’impossibile ricerca di un’espiazione.