La Lettura, 13 luglio 2025
La fragilità del carnefice
A volte capita di imbattersi in persone che hanno la capacità di far riaffiorare ricordi e sensazioni un tempo familiari, ma che per anni non hai provato e quindi stanno lì, sepolti. Sepolti in profondità, sepolti forse in attesa che arrivi qualcosa o qualcuno a riattivarli. Mi sono imbattuto in Uketsu, un performer, youtuber e scrittore giapponese; un senza volto. Diremmo, più prosaicamente, un individuo a cui è difficile attribuire un sesso definito, che indossa una maschera e comunica attraverso una voce modificata, infantile. Il corpo sembra essere quello di un uomo e la voce quella di una bambina: già questo, già solo questo, genera straniamento. Cosa c’è di strano in un performer in tuta nera e volto coperto da una maschera di cartapesta? Direi nulla. Così come nulla di strano c’è in una vocina esile da bambina. Però se l’uomo con la tuta nera e la maschera bianca di cartapesta parla con voce da bambina, allora ecco che si è colti da quella sorta di spaesamento terrificante che Freud definiva il perturbante. Das Unheimliche, letteralmente ciò che non è familiare, o meglio ciò che di sconosciuto scorgiamo in qualcosa che abbiamo ritenuto fino a poco prima familiare. È una reazione quasi animale, di autodifesa: ci atterrisce ciò che inizia, in un determinato momento, a palesarsi sotto una luce diversa, tanto diversa da far apparire irriconoscibili un oggetto, una persona, una situazione poco prima considerati consueti. Il perturbante rappresenta ciò che ci accorgiamo di non aver mai scorto in un contesto nel quale, per abitudine, siamo senza difese.
Ma perché il perturbante ci atterrisce? Non ho forse detto che è quasi un meccanismo di autodifesa? Sì, ma tutto sta in quel «quasi». Provo a spiegarmi meglio. Quando ci troviamo in una situazione di pericolo, facciamo la cosa più naturale e scontata del mondo: scappiamo. Quando ci troviamo in una situazione di disvelamento, non riusciamo a muoverci perché abbiamo bisogno di capire meglio, di verificare se quello che vediamo corrisponde al vero o è frutto della nostra immaginazione, di uno stato di alterazione. Questo tempo sottratto alla fuga può esserci fatale. Da qui nasce il terrore del perturbante. Di fronte a una situazione familiare che diventa unheimlich, non fuggiamo, ma vogliamo guardare meglio, capire meglio, osservare più da vicino. E più ci avviciniamo, più sentiamo che ci stiamo allontanando da ogni possibilità di fuga e quindi di salvezza.
E quindi Uketsu incuriosisce, ma allo stesso tempo, quando guardi i suoi video su YouTube o mentre sei immerso nelle sue pagine, speri non ti mostri o descriva nulla di terrificante che ti faccia perdere il sonno. Ma mentre hai questo timore, non smetti, non ti sottrai, anzi, continui, fino alla fine.
Uketsu è senz’altro l’Uomo senza volto di Miyazaki, né buono né cattivo, è il tramite tra il mondo dei vivi e il mondo degli spiriti che non trovano pace. È uno spazio di spiritualità, laddove in Giappone la devozione ha spesso la funzione di placare gli spiriti che l’uomo con la sua esistenza provoca e infastidisce.
Uketsu è un performer che riesce ad attrarre le nuove generazioni giapponesi. Generazioni che, come in Italia, per via del drastico calo demografico, vivono in Paesi che progressivamente stanno morendo. Uketsu realizza video dove la performance artistica prevede, ad esempio, l’uso di vestiti che sembrano carne appesa ai ganci di una macelleria, asparagi tagliati che si trasformano in dita umane. L’horror di Uketsu è atto artistico, il cui scopo non è semplicemente intrattenere, ma inquietare e muovere un pensiero.
Uketsu è poi arrivato alla scrittura, dove la sua tradizione letteraria sembra evidente, in particolare il teatro No giapponese. Ma ai costumi sfarzosi ha sostituito la tuta nera, alle maschere piccole che lasciavano scoperto il mento, ha sostituito una grossa circonferenza che copre tutto. È il teatro Kuroko, forse, a fare da mediatore; questa tradizione prevede un attore che si pone senza mai farsi vedere; si intravede in scena ma se ne sente la voce e lo spirito attraverso i movimenti sul palcoscenico.
Vedete quanta ricchezza e complessità in un performer che ha iniziato a registrare video per YouTube e che ha scritto un libro, Strani disegni (edito in Italia da Einaudi Stile libero), pubblicato in 34 Paesi e che ha venduto quasi due milioni di copie in tutto il mondo.
Tutte le storie di Uketsu partono da disegni, che sono sempre manifestazione della volontà di riempire uno spazio bianco, di interrompe il vuoto. Lo spazio bianco e il vuoto che lui rivendica indossando una maschera.
Maschera bianca di cartapesta e tuta nera, parlami di te: chi è Uketsu?
«Qualcuno che non è nessuno... direi. Volendo, potreste anche pensarmi come un pagliaccio estremamente contemporaneo».
Guardando il tuo canale YouTube ho visto potenzialità immense, è come se davvero un senza volto – ho in mente il senza volto della «Città incantata» di Miyazaki – possa farsi tramite per qualunque cosa. Come è iniziato tutto?
«All’inizio ero un giovane che viveva fuori città e lavorava part-time in un supermercato. Le mie giornate scorrevano noiose e mi chiedevo sempre cosa avrei potuto fare per sfuggire alla realtà. Come molti ovviamente sanno, esistono molti metodi per scappare dalla realtà: si potrebbe, ad esempio, provare l’esperienza di finire dietro le sbarre rubando qualcosa in un negozio, oppure basterebbe trafiggersi il petto con un coltello e dare l’addio a questo mondo. Io non volevo sperimentare nessuno di questi metodi, per cui ho iniziato a fare quello che faccio tuttora. Strada facendo, poi, mi sono venute in mente diverse idee. “Come sarebbe se qualcuno appendesse degli enormi ammassi di carne sul terrazzo di casa propria?”, o ancora, “Che effetto farebbe vedere tante orecchie girare su sé stesse?”... tante idee che mi hanno aiutato a separarmi dal mondo di tutti i giorni».
Quali sono i tuoi riferimenti letterari? E quelli cinematografici?
«Il mio primo incontro con la letteratura è stato Edogawa Ranpo, il pioniere del giallo in Giappone. Tra le sue opere, quella che mi ha ispirato maggiormente per la mia produzione è Il demone dell’isola solitaria (pubblicato in Italia da Atmosphere Libri, ndr)».
Sei consapevole di quanto, senza orpelli e in maniera assai diretta, tu sia riuscito a raccontare l’essere umano? Ciò di cui ha paura, i suoi desideri più immediati e quelli inespressi, la necessità di avere e cercare giustizia, la sfiducia nell’altro. È come se ci trovassimo al cospetto di tante sofferenze che si incrociano, che si sfiorano, che si incontrano, che si sommano. Tanti possibili assassini e tutti incredibilmente incolpevoli. Tutti mossi da un male, da un senso di mancanza che sta sopra di loro, che aleggia: come se lo spirito del tempo avesse la meglio sul libero arbitrio. Ho visto giusto?
«Io penso che alla base di ogni tragedia, dai piccoli crimini alla guerra, ci sia la fragilità dell’essere umano. L’uomo diventa aggressivo proprio perché fragile per natura. Io mi occupo prevalentemente di crime fiction e nei miei romanzi voglio descrivere la fragilità che tormenta i carnefici. Ho la sensazione che ci sia qualcosa di molto grande, qualcosa di incontrollabile che all’improvviso porta questa debolezza a tramutarsi in violenza».
Credi che la mancanza di una identità definita, credi che vestire i panni di un senza volto, aiuti il processo creativo?
«Per quel che riguarda la mia professione di scrittore, no. Non l’ho mai percepita come un valore aggiunto. A quanto pare, il mio aspetto attira molto la curiosità delle persone (e la cosa mi fa sicuramente piacere), ma spesso ho la sensazione che il loro interesse sia rivolto soprattutto alla mia identità e alla mia vita privata piuttosto che alle mie opere».
Come nascono le tue storie? Mi riferisco ovviamente a «Strani disegni», ma anche a «La strana casa»: dopo aver visto i video che gli hai dedicato su YouTube, mi è venuta una voglia incredibile di poter leggere come hai sviluppato una trama, che sembra semplice, ma che, nella sua semplicità, si presta a infinite declinazioni.
«Non penso subito alla struttura della storia nella sua integrità. Parto sempre con un’idea che stuzzichi il mio interesse... per esempio “una strana planimetria”, oppure “un disegno misterioso”. Da lì, poi, faccio lavorare la mia immaginazione. Quindi porto avanti la storia verso la risoluzione del caso, come se fossi io stesso uno dei protagonisti. Ovviamente, essendo l’ideatore del mistero, non esiste un’unica soluzione corretta. Al contempo, però, si può vedere la cosa in termini di “infinte soluzioni corrette”. Ecco, tra tutte le risposte io cerco quella che mi sembra più interessante e intrigante. Così nascono le mie storie».
Konno Naomi è la protagonista di «Strani disegni»: è un personaggio universale. È una matricida ma di mestiere dà la vita. Non voglio dire più del dovuto, ma vorrei, se possibile, sapere questo da te: la osservi con l’occhio dell’entomologo o hai finito per affezionarti a lei? Comprendi ciò che devasta il suo animo?
«Le sono affezionato. Io non ho figli, ma ho delle persone a cui tengo molto. Spesso mi chiedo come reagirei se qualcuno dovesse fare loro del male, o se riuscirei a perdonare i colpevoli. Sono attanagliato dal timore che, se dovesse accadere qualcosa di spiacevole, potrei finire per gettare al vento la mia vita pur di vendicarmi. Naomi è l’impersonificazione di questa mia paura. Ho provato sentimenti contrastanti nel vederla diventare sempre più mostruosa a mano a mano che scrivevo la storia».
Non voglio forzare l’interpretazione della tua opera, ma ho la netta sensazione, direi quasi la certezza, che tu esprima una critica fortissima verso il progressivo isolamento dell’uomo dovuto all’utilizzo dei social media e soprattutto degli smartphone. Non vedo alcuna contraddizione nell’essere presente su YouTube, che ritengo un mezzo potentissimo di diffusione di contenuti. Cosa ne pensi dell’utilizzo che oggi facciamo di strumenti che ci allontanano gli uni dagli altri?
«Penso che i social media siano uno strumento che ci dà l’illusione di poter comprendere facilmente gli altri. In realtà è molto complesso capirci a vicenda. Ad esempio, serve tantissimo tempo persino a capire le fragilità nascoste, il carattere e il pensiero di persone a noi molto vicine, come possono essere gli amici del cuore o il proprio partner. Non penso che bastino pochi mesi, e nemmeno un anno. Sui social, però, tendiamo a credere di avere compreso a fondo una persona soltanto dopo avere letto una breve frase o aver guardato per pochi secondi una fotografia. Quindi ci sentiamo liberi di poter insultare, oppure di credere di essere diventati subito amici. Tutto questo mi terrorizza».
Credo di aver capito che dai un valore altissimo alla letteratura e che hai fatto della possibilità di avvicinare quante più persone alla lettura una missione di vita. Come mai? Da cosa nasce questa tua necessità (che condivido)?
«Quando ero piccolo detestavo la lettura. La maggior parte delle opere letterarie mi inquietavano perché mi apparivano difficili e altezzose. Un giorno, però, in libreria per caso presi in mano un libro e mi resi conto per la prima volta di quanto potesse essere interessante leggere. Penso proprio che nasca da qui la mia missione. In Giappone, il termine “lettura” include diversi significati che vanno oltre il semplice atto di leggere: per citarne alcuni, “studio”, “intelligenza”, “sforzo”... Molte persone vengono cresciute sentendosi dire che si deve leggere molto per diventare intelligenti. Di conseguenza, per molti giapponesi le persone che non leggono non lo sono. Certe persone, poi, hanno subito traumi; magari veniva detto loro che l’assenza di passione per la lettura derivava dalla scarsa applicazione e dalla mancanza di serietà. Ho la sensazione che siano moltissime le persone che hanno finito per allontanarsi dai libri per questi motivi. Io vorrei semplicemente dire loro che la lettura non è altro che un passatempo, qualcosa a cui dedicarsi in tutta tranquillità, senza pensare ad altro».
In Italia ci sono intere generazioni, a partire dalla mia, che sono cresciute con i cartoni animati giapponesi. È incredibile come il tuo mondo, per molti italiani non più giovanissimi, sia estremamente familiare. Sei consapevole che la tua scrittura e le tue storie hanno potenzialità immense? Ti leggeranno i miei coetanei, i genitori dei miei coetanei – gli attuali settantenni, che nel fiore della loro giovinezza hanno condotto battaglie perse in partenza contro la presunta violenza di Ufo Robot e Mazinga, ma che ora ricordano tutto con un misto di nostalgia e affetto – ma ti leggeranno anche i giovanissimi che, grazie ai manga di ultima generazione, hanno imparato ad amare l’universo letterario giapponese. Come vivi questa tua capacità di parlare a diverse generazioni? Te l’aspettavi? L’hai costruita consapevolmente attraverso un immaginario retrò (telefoni a rotella, computer di vecchissima generazione)? O è semplicemente quello che tu sei, e la mancanza di una identità definita rende tutto questo evidente?
«Sono molto curioso di vedere la ricezione delle mie opere tra i lettori italiani. Sarei molto felice e grato se riuscissero a stimolare l’interesse e il divertimento di tutte le fasce d’età. L’immaginario retrò dei miei video rispecchia puramente il mio gusto. Ovviamente è importante essere consapevoli della propria immagine nella società, sapere come la gente ti guarda e come ti considera, ma per me è ancora più importante essere me stesso».
Ti ho sentito parlare di «easy reading», di volere rendere la lettura facile per tutti: come fai a tenere insieme trame dalle infinite possibilità a un linguaggio immediato? Non parlerei nel tuo caso di linguaggio semplice, ma di un linguaggio che è in grado di dialogare con le immagini e per questo di essere tanto più immediato.
«Mi sforzo di scrivere romanzi che possano arrivare facilmente al lettore. Solo questo. La tecnica è senza dubbio importante, ma sono convinto che, se si scrive pensando a chi ci legge sulla carta o ci guarda attraverso uno schermo, tutto risulterà più comprensibile».
Che progetti hai per il futuro?
«Mi piacerebbe scrivere un’opera pensata per Audible. Nei miei racconti compaiono spesso mappe, schemi e disegni, per cui non sono molto adatte al solo ascolto. Vorrei dedicarmi allo studio di una tecnica espressiva che mi permetta di essere accessibile anche su Audible».