Avvenire, 13 luglio 2025
La “Lunga marcia” sull’Africa. Ormai un porto su tre è cinese
Ha del dirompente l’ascesa economica e militare cinese: tradisce pruriti di potenza imperiale e proiezione verso linee di traffico intercontinentali, ma è pure riflesso di vulnerabilità intrinseche e di un modello economico pseudo-liberalcapitalista dipendente per quasi il 40% dai flussi mercantili ultraconfinari, più dei quattro quinti dei quali fluenti via mare, polmone vitale di un paese in lotta perenne con i vincoli della prima catena di isole, a caccia di materie prime energetiche, derrate alimentari e sbocchi per le sovracapacità produttive nazionali. Pendant marittimo delle nuove vie della seta terrestri, il mare è per Pechino vettore di commerci e d’influenza, irradiamento di soft power e apripista di punti d’appoggio ruotanti intorno a porti, mega-porti e infrastrutture viarie e ferroviarie, in Asia, Africa e America Latina, spesso interconnesse a diritti di sfruttamento minerario, a “logiche neocolonial” e al grande gioco della Guerra fredda 2.0 e del ritorno delle sfere d’influenza. Ora, la Cina ha quote di controllo in più di un terzo dei porti africani: opera in 78 hub continentali, in 32 Paesi, con un’enfasi accentuata per la costa occidentale, specchiantesi sull’Atlantico e proiettata verso le Americhe. Porti spesso costruiti e finanziati da capitali, maestranze e ingegneri cinesi, con un occhio di riguardo ai requisiti reconditi della Marina militare, le cui navi sono attraccate in almeno 55 porti africani da inizio millennio a oggi. Secondo dati di un centro di studi strategici africani affiliato al Pentagono, quasi la metà dei porti, più o meno legata a Pechino, si presta ad accogliere navi da guerra.
Qui, in Asia e America Latina, li ritrovi talvolta ubicati in prossimità di linee di comunicazione marittima vitali, distanti appena un giorno di navigazione da stretti e choke points (i cosiddetti “colli di bottiglia”). Alcuni vi intravedono il tentativo di imbastire capisaldi futuri presso passaggi marittimi obbligati, con la duplice finalità di proteggere le proprie linee di comunicazione e di negarle a un potenziale avversario, nella più tipica logica di matrice “mahania-na”, del potere marittimo enucleato dallo stratega statunitense di fine 800 Alfred Thayer Mahan che fu già dei britannici, dominanti i mari a Gibilterra, Malta, Egitto, Socotra e Malaysia. Le proiezioni odierne cinesi devono tantissimo al terzo comandante della flotta mandarina, Liu Huaqing (dal 1982 al1987), che da numero uno della Commissione militare centrale lanciò una riforma copernicana. Ed è la Cina dei presidenti Hu Jintao e Xi Jinping che ha costruito fra il 2009 e il 2014 il porto in acque profonde di Bata, in Guinea, e che ha investito in progetti infrastrutturali continentali 160 miliardi di dollari nel giro del decennio successivo. Da Shangai a Chancay, passando per Gibuti, Lekki, Mombasa, Luanda e Lomé, lo sviluppo portuale cinese in Africa e Sudamerica si declina in nuovi spazi strategici, dettati dalle linee di indirizzo dei libri bianchi ad hoc, dei piani pan-economici e di legami che tendono all’asimmetria strutturale verso l’Impero di Mezzo, insinuatosi ormai anche nel giardino di casa dello sceriffo nordamericano. Racconta l’esperto Emmanuel Véron che, mentre inaugurava il nuovo porto in Perù, la compagnia China Merchant Ports firmava lo scorso novembre una lettera d’intenti foriera di potenziali concessioni in Brasile, nel secondo terminal per container a Paranagua. La Cina ha soppiantato i vecchi partner storici sudamericani, issandosi al rango di primo partner commerciale del subcontinente, con un interscambio tendente verso i 700 miliardi di dollari entro la fine del prossimo decennio. Promette di rivoluzionare le rotte del Pacifico Pechino, ma proietta anche ombre sinistre e sospetti di intelligence, fatta di decrittazione dei segnali elettromagnetici, di spionaggio cyber attraverso la piattaforma di gestione logistica pubblica Logink, di gru comandate da remoto e di mezzi di sorveglianza elettronica. Gestisce metadati sul traffico marittimo la Cina, sui flussi in entrata e in uscita dai porti, la cui dualità, pur intrinseca, è vulnus, a meno di una militarizzazione a 360° e di una diplomazia delle cannoniere che sarebbe oggi controproducente e ancora fuori portata.