Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  luglio 12 Sabato calendario

"Mio papà Tonino Carino Piaceva perché era genuino ma soffriva per le imitazioni"

Non era Tonino Carino. Era «Tonino-Carino-da-Ascoli»: tutto unito, tutto di corsa, col fiato in gola spezzato e l’occhio dilatato da un malcelato mix di ansia ed emozione. Così si presentava la domenica pomeriggio in collegamento dagli studi marchigiani di 90° minuto. Se c’era l’Ascoli, c’era lui: giacca, pochette, cravatta, riga dei capelli a sinistra. «Papà – ricorda oggi il figlio di Carino, Riccardo – rappresentava un familiare che portava nelle case la sua umanità. E pensare che, all’inizio, non era il suo: aveva esordito come cronista di nera sul Resto del Carlino, in Rai ci finì perché voleva qualcosa in più. Fino a quando, a metà degli anni ’70, con l’exploit calcistico dell’Ascoli, da corrispondente regionale incappò nelle dirette della trasmissione che gli avrebbe cambiato la vita».
A dargli la linea, in studio, c’era uno dei grandi giornalisti sportivi del dopoguerra: Paolo Valenti.
«Fu lui a scoprirlo e a valorizzarlo, intuendo per primo come la sua genuinità potesse bucare lo schermo».
Oltre a suo padre, c’era una fitta rete di corrispondenti: Luigi Necco a Napoli, Giampiero Galeazzi a Roma, Lamberto Sposini a Perugia. Rivalità?
«Nessuna, che io sappia. Era una gran squadra. Papà mi diceva sempre che avevano tutti un obiettivo comune, il successo della trasmissione, e che erano strafelici di parteciparvi».
Anche perché erano seguitissimi: negli anni ’80 la platea di spettatori superava i 10 milioni a puntata.
«Ricordo ancora quando passeggiavamo sul lungomare di Senigallia: mamma e papà davanti, io e mia sorella poco più dietro. La gente lo incrociava, si voltava, chiedeva: “Ma quello è Tonino Carino?"».
E lui?
«Era orgoglioso, non solo per la visibilità: amava rappresentare le Marche e farle conoscere».
L’Ascoli si difendeva bene in serie A. Sfiorò persino la qualificazione in Europa.
«Il presidente, Costantino Rozzi, spesso veniva di sorpresa a trovarci nella nostra casa di campagna, imbucandosi per pranzo. Adorava certi pomodori che mio nonno coltivava. Con papà, a tavola, parlavano proprio da tifosi».
Scherzavano?
«Parecchio. Babbo entrava in difficoltà con la pronuncia dei calciatori stranieri, così Rozzi lo canzonava: “A Tonì, quest’anno t’ho acquistato Trifunovic, ora so’ cavoli tua!"».

Non andava d’accordo con le altre lingue.
«E non ne faceva mistero. Anni dopo, quando divenne ospite e inviato fisso a “Quelli che il calcio”, lo prendevano spesso in giro: c’era persino un professore di inglese che in diretta cercava di insegnargli due-tre parole, ma lui niente. Però ne rideva: è sempre stato ironico».
Anche con le imitazioni? Proprio negli anni ’80, il trio Lopez-Marchesini-Solenghi ne fece una formidabile parodia.
«Papà allora era giovane, e soprattutto sembrava ancora più giovane della sua età. Così Solenghi iniziò a imitarlo canticchiando: “Sono Tonino, sono Carino, sono la gioia di mammà e papà. Se mi sporco il vestitino, il papà mi fa cià cià!”. Accanto a lui, Anna Marchesini a fargli da tata».
Come reagì?
«All’inizio gli dispiacque, poi capì che era il riflesso della notorietà. Alla fine, col Trio divennero amici: quando venivano in tour nelle Marche, babbo era sempre invitato, e andava spesso a far serata insieme».
Si diceva fosse scaramantico.
«Moltissimo. Stessa strada, stesso marciapiede per decenni. Guai a incrociare gatti neri, e poi sempre con sé il portachiavi con un cornetto».
Che padre è stato?
«Attento, partecipe. Con me e mia sorella Daria compensava nella qualità di un momento ciò che non poteva darci in quantità. Gli bastava uno sguardo per capire. Era ossessionato dall’importanza della semplicità e della parola data, e poi era capace di gesti inaspettati».
Per esempio?
«Un fine settimana lo accompagnai in una trasferta a Milano e mi trovai ospite a cena di Massimo Moratti e di sua sorella Bedy. Da tifoso interista, mi sentii come fossi a tavola con gli alieni: due posti a fianco a me, c’era il presidente della squadra per cui tifavo che parlava con mio padre dell’Ascoli degli anni d’oro allenato da Giovan Battista Fabbri e poi da Carlo Mazzone».
Mazzone esordì in panchina proprio lì, ad Ascoli.
«Papà mi raccontava sempre che le cose a un certo punto iniziarono a non andare bene. Si vociferava di un esonero, così il presidente Costantino Rozzi rassicurò Mazzone: “Se sarò costretto a licenziarti – gli disse – ti terrò comunque a lavorare nella mia azienda di costruzioni”. Nel calcio di allora, gli stipendi non erano granché: se un allenatore agli esordi come Mazzone avesse perso il lavoro, sarebbe potuto diventare un problema».
Le cose, per fortuna di Mazzone, non andarono così. Con suo padre rimasero in buoni rapporti?
«Certo. Poco prima che morisse, babbo fu costretto a operarsi al femore. Era in ospedale quando Carletto sbucò all’improvviso: non si vedevano da anni ma era come se si fossero sentiti fino a ieri l’altro. Tutte schegge di un calcio assai diverso da quello di oggi».
Ecco, nel calcio di oggi suo padre che farebbe?
«Non lo so. Certo non sarebbe mai scelto per condurre un programma: devi essere strapreparato, conoscere tutto, apparire sicuro e spigliato».
La sua timidezza in diretta era invece proverbiale.
«Era la sua firma e la sua cifra: come incrociare per strada un vicino di casa che ti raccontava come fosse andata la domenica».
È stata quella la chiave del suo successo?
«A 15 anni dalla sua scomparsa c’è chi mi ferma ancora, mi chiede aneddoti, lo ricorda con affetto. Come se fosse sempre qui, pronto a portare nelle case un pezzo delle sue Marche».—