la Repubblica, 13 luglio 2025
Cabina con tenda l’Italia raccontata dalle fototessere
Quella mattina di un lontano 1972 Franco Vaccari aspettava con trepidazione l’ingresso dei primi visitatori della Biennale di Venezia. Nella sala a lui riservata aveva installato una cabina per fototessere. Sulla parete aveva scritto “Lasciate una traccia fotografica del vostro passaggio”. Avrebbero capito? Avrebbero accettato il gioco? Poche ore dopo, il dubbio non esisteva più. La gente faceva la fila, euforica, davanti alla cabina, con le cento lire in mano, e la parete era già stracolma delle striscioline di ritratti appiccicate, che ogni ora dovevano essere rimosse per lasciar spazio ad altre. Arrivarono pure i carabinieri, sospettosi che dietro quella tendina accadessero cose sconce. Parteciparono alla performance sconosciuti visitatori e grandi artisti (Boltanski, Christo, Kounellis). Solo l’intervento del cerimoniale impedì al presidente della Repubblica Giovanni Leone di lasciare anche lui “una traccia fotografica del suo passaggio”.
Aveva colto, Vaccari, grande avanguardista dell’immaginario, la stregoneria di quell’antro dell’Io, di quel ventre del narcisismo. Col nome di Photomaton, l’aggeggio fu brevettato un secolo fa, nel 1924, negli Usa, da un certo Anatol Marco Josepho (così racconta Federica Muzzarelli nel suo Formato tessera ), anche se, come per tutte le grandi invenzioni, la paternità è furiosamente contesa.Doveva servire a scopi pratici: sfornare fototessere, appunto, per documenti. E fece il suo modesto lavoro, certo. Ma il pubblico scoprì subito che quella scatola era una tana di sfrenamento comportamentale, una enclave di libertà prossemica, un liberi-tutti della recita sociale, e vi si gettò avidamente. In quel palcoscenico di un metro quadro chiunque poteva recitare, davanti all’occhio asettico di un robot fotografo, pose o smorfiette e magari anche porcellerie varie (per tutelare il buoncostume la tenda, all’inizio lunga fino a terra, fu ridotta a mezzo metro). Un teatrino antropologico dell’Io scatenato, e soprattutto: autogestito. Neanche Vaccari poteva immaginarlo, era quello il precursore del narcisismo da selfie, che in realtà è una ripresa dipossesso della propria immagine, dopo due secoli in cui un estraneo, il fotografo, ce l’aveva sequestrata.
È storia di tutti. Lì dentro, il vetro in cui la semioscurità faceva sì che potessimo vedere riflessa la nostra faccia, c’era già il display del cellulare che oggi teniamo a braccio teso. C’era però – e questo il selfie non ce l’ha – anche il brivido del conto alla rovescia prima che la nostra posa venisse irrimediabilmente stampata sulla carta, tre secondi, due, uno (non c’è più tempo! Mettiti nella posa giusta, ora o mai più!), e flash! E ancora, la sottile piacevole breve ansia dell’attesa che la striscetta cadesse nella fessura, fuori, con un gentile toc!, subito raggiunta dalle nostre dita avide, come sono venuta? Ma quel che è fatto è fatto (ora no,con le cabine digitali puoi scegliere la posa migliore prima di stampare, peccato).
C’era giocosa ribellione, sovvertimento delle regole (le istruzioni sul pannello, fuori, intimavano di non sorridere, pena la invalidità della foto come documento di identità), nell’uso ludico di quel congegno burocratico. Le striscette (un tempo di carta, in bianco e nero, un nastro di quattro immagini; ora plasticate, a colori e in griglie di quattro o più, ma non cambia molto) diventavano poi segnalibri, soprammobili, o semplici souvenir malinconici abbandonati in un cassetto. Contava di più l’atto dell’oggetto. La cabina fototessere fu dunque l’incubatrice di esistenze immaginarie, come nel film Il favoloso mondo di Amélie,dove il ritrovamento di misteriose fototessere abbandonate sotto le macchinette innesca una trama di gentili follie.
Ma quei rettangolini senza autore appartengono anche alla malinconia del tempo perduto. Quante volte abbiamo riguardato la nostra vecchia patente, con la foto fatta il giorno dell’esame di guida, a diciotto o vent’anni, per ridere di quel ragazzino irriconoscibile? Fino a poco tempo fa una cabina per fototessere vintage funzionava ancora a Firenze (non a caso, in largo Alinari). Era una macchina del tempo, una soglia fantascientifica, una caverna di Platone.