Corriere della Sera, 12 luglio 2025
Intervista ad Andrea Occhipinti
Andrea Occhipinti, l’uomo che visse due volte. Da giovane è stato un attore non di primo piano; da adulto ha sviluppato un grande fiuto per i film più belli. È lui il re del cinema d’autore, quello dei festival, portati dai cineclub alle sale, al grande pubblico. In principio c’erano l’Academy di Vania Traxler, Mikado di Roberto Cicutto e in parte la Bim di Valerio De Paolis. Poi venne Andrea Occhipinti, classe 1957, fondatore di Lucky Red. Primo film distribuito, nell’88: Let’s Get Lost di Bruce Weber, sulla geniale perdizione di Chet Baker. I numeri sono impressionanti. Fino al 2023, 31 Oscar, 51 David di Donatello, 23 premi a Venezia.
Che adolescente è stato?
«Ero timido e irrequieto. Ho sperimentato tutto, anche la droga, non avendo riferimenti, come accade a tanti ragazzi navigavo in modo pericoloso tra cose legali e illegali. Ho avuto un rapporto difficile con mio padre, medico condotto, vinse il concorso a Formello, fuori Roma, e sono cresciuto in campagna. Avevo 12 anni quando mi regalò un cavallo. Non c’erano maneggi, ho imparato come un buttero, andavo anche a pelo, senza sella, con un tipo che dava un colpo sul sedere del cavallo che partiva al galoppo. Il primo giorno caddi in un fosso».
Rapporto difficile perché?
«Perché mio padre era bipolare. Adorabile in certi momenti e uomo di cultura, aveva un lato oscuro che lo faceva diventare violento. Si creò un’altra famiglia. Mia madre, maestra elementare, aveva l’assillo di non poter badare a me e a mia sorella Francesca. Così, un po’ allo sbando ma con la voglia di non pesarle, a 20 anni cercai di essere autonomo. Vivevo per conto mio, per pagarmi le spese feci tante pubblicità, i jeans, il cornetto Algida…».
Primi passi al cinema?
«Come attore, e non durò poco, dal 1977 al ’99. Ho lavorato per Scola, Bolognini, Dino Risi. Solo che non era il mio vero mestiere, sentivo delle fragilità, ero insoddisfatto ed ero iperattivo, aspettare la chiamata del regista mi metteva angoscia».
Il debutto?
«In una commedia per Castellano & Pipolo dove facevo Hitler da giovane, con tanto di baffetti. Una roba assurda. Poi il teatro con Scaparro, gli sceneggiati in tv e il cinema. In Bolero la protagonista era Bo Derek. Al suo massimo fulgore, era in balìa del marito, un set molto conflittuale».
Come attore...
«Non era il mio vero mestiere, anche se in La famiglia di Scola me la cavai bene. Fare l’attore è un’esperienza che mi è servita, i listini dei miei film sono dei piccoli show».
Lei e Sophia Loren.
«Abbiamo recitato insieme nel remake de La ciociara. Sophia mi dava del lei. Dino Risi mi raccomandò la spontaneità, in una scena dovevo darle un bacio. Solo che non calibrai le labbra e la Loren mi diede uno schiaffo dicendomi: che te possino. Poi però ci siamo dati del tu, mi parlava della sua ricetta dei peperoni».
Lei era bellissimo.
«Mi sceglievano come eroe romantico, il bel tenebroso, ma non ero a mio agio, era tutto stucchevole. Io, un sex symbol, laddove ero omosessuale. Cosa che non ho mai nascosto, ma non lo dicevo pubblicamente. Fuori di casa ero libero, mai condizionato o represso. Ho vissuto la mia sessualità con serenità e gioia. Ebbi uno scontro fisico con mio padre. Un giorno gli dissi che non doveva andare a casa di mamma, mi urlò scagliandomi uno specchio addosso: e tu, dove pensi di andare coi tuoi amici froci? Così mi fece capire che aveva capito»».
Com’è messo col cuore?
«Sto da 31 anni con un uomo spagnolo. Abbiamo fatto l’unione civile in Italia e il matrimonio in Spagna».
Ci provavano tutti con lei?
«Ero un po’ attenzionato, da uomini e donne. Avevo reazioni diverse, sorridevo, ci restavo male. Una volta, con un uomo greve e insistente, piansi. Una signora mi chiuse nella cabina di uno stabilimento di Fregene e accadde. La presi sportivamente».
Lei ha condotto il Festival di Sanremo.
«Non era certo la macchina di oggi. Mi chiamarono dopo il successo di una mia serie su Rai 2, nel ’91, accanto a Edwige Fenech, quando già esisteva Lucky Red. Non c’era il gobbo in tv, ci davano un malloppo poche ore prima con alcune informazioni imprecise. Il manager di Loredana Berté mi disse che avevo annunciato una canzone di due anni prima».
I film su Andreotti e Berlusconi?
«Il Divo di Sorrentino era temuto e osteggiato, soltanto La7, ma in seguito, lo acquistò. Andreotti aveva fatto pressioni perché non venisse finanziato. All’anteprima, nella scena dell’incubo, in cui si dichiara responsabile di morti e uccisioni, sbottò: che mascalzone! Ma si ricompose subito. E Silvio Forever, beh il trailer fu rifiutato dalla Rai, però non ho ricordi nitidi, mi sembra preistoria».
Vladimir Luxuria?
«Priscilla divenne un cult. A due passi dal Vaticano c’era il locale Mucca Assassina, ospitava serate maschili, l’animatore era Vladimir Luxuria ancora sconosciuta. Ricordo l’imbarazzo e lo sconcerto delle signore borghesi all’arrivo delle drag queen».
Roberto Benigni?
«Sapevo che ama Aki Kaurismäki e gli chiesi una mano per il lancio di Leningrad Cowboys go America. Aki non mangiava ma beveva, e molto. Arrivò sul palco completamente sbronzo, non riusciva a far uscire una parola dalle labbra, Benigni fece uno show dei suoi. Una scena surreale che forse contribuì al successo di quel film scanzonato».
Caro diario?
«Nanni Moretti era meticoloso, controllava gli incassi di ogni sala».
Pesano le intuizioni?
«Il talento è tutto lì, capire ai mercati i film interessanti prima che vincano. The Millionaire, e parliamo di Bollywood e i sobborghi di Mumbay, vinse 8 Oscar. Lo scelsi al buio, leggendo il copione. Ci fu una diatriba con Kechiche su Cous Cous, diceva che il titolo era un’offesa per i tunisini in Francia, quello originale era La semola e il cefalo: commercialmente un suicidio. Poi Magdalene, che vinse a Venezia. Quella storia di soprusi e sofferenze, in una famiglia con un padre violento e maschilista, l’ho sentita mia».
Il film più controverso?
«Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco, l’unico caso in Italia a non ottenere il nulla osta per la proiezione in pubblico, ritenuto blasfemo e sacrilego. Si parla di Gesù e mafia. Poi mi chiamò Veltroni, che era ministro della Cultura, dicendomi che era riuscito a far cambiare la legge, e uscì vietato ai 18 anni. Non mi sono mai preoccupato di film che potessero turbare».
Franco Brusati?
«Un punto di riferimento nella mia vita. Probabilmente il fatto di avere aperto una società di distribuzione lo devo a lui. Mi chiese di accompagnarlo a Parigi per cercare di vendere Pane e cioccolata all’estero. Fu il mio apprendistato. Era un regista colto, fuori dai circoli del cinema, un milanese dal piglio aristocratico, un grande solitario, il suo era un mondo a parte».
La vicenda del killer di Villa Pamphili finto regista che ha avuto 860 mila euro per un film mai girato?
«Una vicenda piena di disinformazione che ha associato tutti gli imprenditori di cinema a degli avventurieri. Siamo un’industria fatta di eccellenze, quando ci siamo accorti delle anomalie del tax credit abbiamo sollecitato noi i controlli».
Come ha cominciato?
«Sono autodidatta. Ho scoperto il cinema grazie ai cineclub, che hanno segnato la mia formazione. A New York andai a vedere uno dei primi film di Almodovar e mi chiesi: ma perché questi film, alti e con un elemento commerciale, non arrivano in Italia? Ecco, non aver distribuito Pedro è un mio rimpianto, assieme a quello di aver sprecato tempo, dai 17 ai 19 anni: troppe canne e poco studio».
A un certo punto è diventato produttore.
«Nel ’95, con L’amore molesto di Mario Martone. Un passaggio naturale. Il mio orgoglio è che tanti registi e scrittori si sono avicinati al cinema grazie ai nostri titoli».
Lucky Red sembra una marca di sigarette.
«L’ho fondata con Kermith Smith e Dino Trappetti. Poi hanno lasciato. Kermith è morto troppo presto. Era un vulcano di idee, prima del cinema era stato manager di una compagnia di flamenco, a Manhattan si inventò dei sandwich vegetariani su dei tricicli. Eravamo diversi. Io ero quello che lo riportava con i piedi per terra. Un americano coi capelli rossi, ecco il mistero di Lucky Red»