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 2025  luglio 12 Sabato calendario

Dazi, il conto (salato) per il Made in Italy. A rischio 35 miliardi di export

La qualità logica delle politiche commerciali di Donald Trump si riassume in ciò che egli sta facendo con Mosca e Kiev. Quando in aprile ciò il presidente americano annunciò i suoi dazi «reciproci» contro 90 Paesi, la Russia risultò del tutto esente – lo è ancora – con l’argomento che comunque l’import degli Stati Uniti dal Paese di Vladimir Putin è poca cosa. Contro l’Ucraina, il Paese aggredito nella guerra, Trump stabilì invece un dazio «reciproco» del 25% su tutti prodotti. Quella barriera doganale resta tuttora in vigore. Poco importa che l’export ucraino verso gli Stati Uniti sia tre volte più piccolo di quello russo e comunque non si capisca il senso di dazi «reciproci», perché sui prodotti americani Kiev pratica dazi a zero.
Se questo è il raziocinio con cui la Casa Bianca conduce le sue trattative commerciali, forse l’Unione europea farebbe prima ad alzare bandiera bianca ed arrendersi. Senza discutere. Questi non sono negoziati classici ai quali generazioni di funzionari e commissari europei sono stati addestrati fino all’ultimo comma, fino all’ultimo codice-prodotto. Questo è uno scontro di potere. Come tale va condotto con gli strumenti del potere e con quelli della psicologia umana, non solo come una normale trattativa sugli scambi.

Perché l’ondata di lettere con minacce di nuovi dazi più alti che ha investito l’Unione europea e altri ventitré Paesi negli ultimi giorni – dal Laos alla Moldova, al Giappone e al Canada – ha molto a che fare con la struttura mentale di Trump. Si capisce più con il suo enorme e fragile ego, che ipotizzando qualunque presunta strategia. La ragione di fondo di quest’ultima svolta è nel timore del presidente di perdere credibilità – come la percepisce lui – dopo le curve e i tornanti degli ultimi mesi. 
L’annuncio dei dazi «reciproci» del due aprile scorso aveva destabilizzato i mercati con tale violenza che Trump aveva dovuto fare una marcia indietro incompleta, ma sostanziale, dopo sei giorni. A quel punto il presidente cercò di salvare la faccia e il suo ego fissando una nuova scadenza al 9 luglio, dopo la quale i 90 Paesi avrebbero subito un Armageddon di dazi se non avessero cancellato i loro presunti oltraggi. Nel caso dell’Unione europea, quali fossero non è mai stato molto chiaro. Il dazio medio di Bruxelles sui prodotti non agricoli è dell’1%, quello sui (pochi) prodotti agricoli del 3,9%. In realtà a Trump premono in gran parte questioni che con il commercio hanno poco a che fare, ma interessano ai grandi finanziatori dei cicli elettorali americani del 2024 e del 2026: la tassazione delle multinazionali, le regole europee sul digitale, la difesa della salute degli europei da certi prodotti dell’industria alimentare statunitense.
La sostanza è che, al 9 luglio, Trump non aveva ancora cavato un ragno dal buco. Giusto un fragile e provvisorio accordo con la Cina, che mantiene un notevole mezzo di pressione dosando la fornitura all’America delle terre rare raffinate indispensabili a molte tecnologie; un patto con il Vietnam, raggiunto dopo che il governo locale gli ha squadernato la prospettiva di una Trump Tower a Ho-Chi-Minh City e un club di golf di proprietà della famiglia Trump a Hanoi; e lo scheletro di un accordo con Londra.
Per il resto Trump al 9 luglio non aveva ancora nulla in mano e in teoria a quel punto avrebbe dovuto applicare i suoi dazi fantasmagorici. Senonché anche lui capiva che rischiava di farsi male, facendo male a sua volta all’economia americana e a Wall Street come dopo il 2 aprile. Ecco dunque che l’ego del presidente si inventa l’ennesimo rilancio pokeristico, per restare minaccioso e temuto anche dopo l’ennesimo flop: ora super-dazi al 30%, se non pieghiamo il capo entro il primo agosto.
Probabilità di nuove sorprese da qui all’ ultimatum, naturalmente, elevate. 
Ciò non significa che tutto questo sia solo un fastidioso ma innocuo teatro. I danni inflitti da Trump sono già reali e non solo perché intanto stiamo già subendo dazi al 25% sulle auto, al 50% su acciaio, alluminio e presto anche rame, altre al 10% su tutto il resto. Più nocivi ancora sono il caos trumpiano e la relativa incertezza, che frenano gli investimenti ovunque nel mondo e in particolare nell’Unione europea.
È qui che a Bruxelles sarebbe tempo di una riflessione sulle questioni di potere. Finora l’approccio è stato di reagire il meno possibile al bullismo di Trump, per evitare una spirale di intimidazioni. È la strategia di Ursula von der Leyen, sostenuta da governi di peso come Italia e Germania e da grandi gruppi europei come Volkswagen e il campione del lusso Lvmh. Ma funziona? Un segnale interessante arriva dai mercati, con l’indice di borsa europeo (Eurostoxx 600) che negli ultimi giorni ha toccato i massimi di sempre malgrado la crescita quasi zero nell’area, il caos dei dazi e la drammatica guerra in Ucraina che non accenna a finire. Significa che i dubbi sul crescente debito americano, sul dollaro e sulla gestione di Trump stanno facendo uscire molto denaro dagli Stati Uniti e che esso sta entrando nell’unica area al mondo dove valgono ancora la trasparenza, lo stato di diritto, la separazione dei poteri e un sistema di governo prevedibile: l’Unione europea. Siamo meno deboli di come pensiamo, dunque forse non siamo condannati a restare inerti.
Il prodotto lordo dei principali Paesi raggiunti dalle ultime lettere di Trump (oltre alla Ue, anche Canada, Messico, Brasile, Indonesia, Filippine, Giappone, Corea del Sud e Sudafrica), se messo insieme, supera quello degli Stati Uniti. Questi Paesi avrebbero un certo potere di persuasione, se decidessero di applicare simultaneamente pressione sue due o tre punti nevralgici dell’economia americana. La leadership della coalizione spetterebbe all’Europa, che pure non ha mai neppure cercato di tesserla. Domani però si riuniscono a Bruxelles i ministri del Commercio dei Ventisette per parlare dell’ultimo rilancio di Trump. E non è mai troppo tardi.