Sette, 12 luglio 2025
Dik Dik, il fondatore della band: «Quando conobbi Lucio Battisti pensai che avrebbe finito per fare il parcheggiatore»
«Battisti? In realtà tra me e me pensai che al massimo sarebbe finito a fare il parcheggiatore». Colonna sonora di una generazione con brani come Sognando la California, Il vento, L’isola di Wight, Senza luce, Pietruccio Montalbetti – fondatore e storico chitarrista dei Dik Dik – non rientra nelle fila di quelli che si vogliono intestare il successo di Lucio Battisti, nonostante il loro rapporto sia iniziato ben prima che entrambi diventassero famosi e che proprio per questo è stato autentico, schietto, fraterno. «L’unica persona che aveva capito qualcosa era Roby Matano, il leader della stessa orchestra in cui Lucio suonava la chitarra. Tutti gli altri niente, neanche Mogol lo aveva capito. Quando Battisti gli fece sentire le sue canzoni mi ricordo che Mogol lo guardò e gli disse: mah, a me non è che interessi molto, però vediamo se riusciamo a combinare qualcosa».
Pezzi di amicizia e vita, di musica e gavetta, di tour e incontri che sono confluiti in Storia di due amici e dei Dik Dik, il nuovo libro di Pietruccio Montalbetti edito da Minerva. Un libro che è tante cose: un’autobiografia, un omaggio a Lucio Battisti, un viaggio musicale e umano.
Due miti da sfatare. Battisti era fascista?
«Che fosse fascista era una gran balla, lui prima di tutto era apolitico».
Taccagno?
«C’è una parola, parsimonia, che viene spesso confusa con un’altra parola, avarizia. Lui era semplicemente parsimonioso. La macchina più bella che gli ho visto guidare è stata una Mercedes diesel: non era un consumista, era una persona semplice».
È vero che rifiutò tre miliardi di lire per andare in tv?
«Lo volevano come ospite a Una rotonda sul mare, un programma condotto da Red Ronnie e Mara Venier affiancati da Teocoli e Boldi. Per quella comparsata arrivarono a offrirgli un assegno in bianco, avrebbe potuto chiedere qualsiasi cifra. Fui io a farmi ambasciatore della proposta. Lui mi rispose con sguardo sornione e beffardo: “Si può fare a queste condizioni: voglio 3 miliardi, uno per me, uno per Grazia (la moglie) e uno per te. Io mi presenterò con un cappotto con un cappuccio e rimarrò di schiena sul retro del palco”. Non era attaccato al denaro».
Il vostro primo incontro fu in via dei Cinquecento a Milano, in una sala di un cinema parrocchiale adibita a studio di registrazione.
«Quando arrivai mi incuriosì il suono di un pianoforte che invadeva la stanza, mi avvicinai e rimasi colpito dal viso di chi lo stava suonando. Ci guardammo e fu lui che parlò per primo, senza smettere di suonare: chi sei tu, un tecnico del suono? Provai verso quel giovane sconosciuto un’immediata empatia, forse per quel suo viso così dolce, o per il suo sorriso che mi indirizzò prima di ricominciare a suonare».
In quell’occasione le fece anche sentire le sue canzoni.
«Gli prestai la mia chitarra per accompagnarsi nella melodia e lui, con voce flebile, intonò alcune sue composizioni chiedendomi cosa ne pensassi. Mentii e lo incoraggiai, ma in realtà tra me e me pensai che al massimo sarebbe finito a fare il parcheggiatore».
Ma non è stato lei il primo a credere in lui? Sul lato B del vostro primo disco avete messo la sua Se rimani con me.
«Ma mica l’ho fatto perché credevo in lui! L’ho fatto perché mi era simpatico. Quando abbiamo inciso il nostro primo singolo per fargli un favore presi la canzone meno peggio di tutte quelle che aveva composto. Lo ripeto: è stato un genio, ma io me ne sono reso conto dopo».
I Dik Dik arrivarono al successo prima di lui. La vostra svolta fu nel 1966 con Sognando la California.
«E Lucio fu prezioso. Ci disse che ai cori mancavano le armonie e che andavano rifatti da capo. Aveva una preparazione musicale molto superiore alla nostra e indicò a ognuno di noi la tonalità adatta per armonizzare. Il risultato fu sorprendente: il brano aveva lo stesso meraviglioso sound dell’originale California Dreamin’ e questo lo dobbiamo esclusivamente a Battisti. In quei cori c’è anche la sua voce».
In quegli anni con i Dik Dik avete registrato diverse canzoni sotto la supervisione di Lucio come produttore esecutivo. Ma non era solo questo per voi.
Ride: «All’epoca in cui non se lo filava ancora nessuno, è stato anche il nostro autista. Un giorno mi disse: senti fammi un favore, portami a Poggio Bustone (il suo paese natale) così dico che sono amico dei Dik Dik. C’era mezzo paese ad aspettarci e lui fermava tutti: questo è mio amico, questo è mio amico! A volte la vita è veramente assurda».
A un certo punto Battisti decise di cantare le sue canzoni, anziché affidarle ad altri.
«Sulle prime la sua decisione non fu accolta con favore, la stessa Ricordi (la sua casa discografica) aveva diverse perplessità, ritenendolo più adatto a scrivere canzoni piuttosto che a interpretarle. Il direttore artistico Iller Pattacini mi convocò e mi chiese di dissuaderlo da questa sua idea. Un’idea che non condivideva nemmeno Mogol («è meglio che le tue canzoni non le canti», gli disse)».
E lei che fece?
«Non dissi niente a Lucio, ma gli diedi un consiglio: se diventi famoso, se diventi una star, sappi che non è facile vivere in mezzo alla gente».
Battisti non era fatto per quel successo così travolgente, popolare, in cui bisogna «sporcarsi» le mani. Come viveva la popolarità?
«Una volta siamo andati a mangiare il pesce persico in un ristorante. Come entriamo lo riconoscono: – ah, Lucio Battisti! – No, io non sono Lucio Battisti. Quando usciamo gli dico: – Senti Lucio, ti posso dire che sei un pirla? Già non capisco perché sostieni che sia immorale firmare gli autografi. E poi ti neghi sempre, ma non è giusto. Sappi che tu sei molto bravo, un fenomeno, ma se non ci fossero state così tante persone a comprare i tuoi dischi, tu saresti uno dei tanti. Hai il dovere di essere gentile con tutti».
Di carattere com’era?
«Era ostinato, determinato e irremovibile quando credeva fermamente in qualcosa».
Avete fatto anche una vacanza al mare in Romagna, ma non amava stare in costume.
«Mi raccontò che da piccolo era escluso e preso di mira per via della sua forma fisica dai bulletti del posto. Raccontava: “Nessuno mi invitava mai a giocare a pallone, mi isolavano, così spesso mi rinchiudevo nei miei pensieri. Ho sempre amato la natura e i boschi, presi ad andarci per i fatti miei, non trascorrevo molto tempo con i miei coetanei. Poi, raggiunta l’adolescenza, sono dimagrito in modo repentino e sulla pelle mi sono rimasti questi segni che somigliano a cicatrici. Mi vergogno a mostrarle, parlano di me più di quanto voglia, e a questo devo il mio atteggiamento riservato nei tuoi confronti”».
Anche il foulard intorno al collo serviva per «nascondersi», ed è merito suo.
«Avevo notato che sul lato destro del collo aveva due segni, simili a due piccole cicatrici che nascondeva portando spesso maglioncini e dolcevita. Un giorno, eravamo al Festival di Rieti nel 1967, mi accorsi della sua richiesta di aiuto: semplicemente mi sfilai il foulard che portavo e glielo annodai al collo in modo ritrovasse un po’ di sicurezza. Da allora iniziò ad usarlo».
Siete rimasti sempre amici.
«Un filo ci legava ogni volta che ci incontravamo di nuovo, non importa quanto tempo fosse passato, tutto riprendeva esattamente da dove l’avevamo lasciato. Siamo rimasti per sempre quei due giovani sognatori che si spalleggiavano l’un l’altro in qualunque condizione – a partire da quella prima sgangherata sala d’incisione – per farsi strada nel mondo».
Amici anche a dispetto della moglie? Non passa per una facile...
«Non ho mai avuto un gran simpatia per lei, credo abbia contribuito a isolarlo ulteriormente».
Di Mogol che pensa?
«Anche per lui non ho mai avuto una gran simpatia. Però gli riconosco la capacità di aprire quella che io definivo la “cassaforte Battisti” e tirare fuori da lui la grande creatività e il talento di cui era dotato sapendoli poi perfettamente combinare con i propri».
La consacrazione di Battisti arrivò nel 1969. Il tempo e il successo lo hanno cambiato?
«A un certo punto Lucio si chiuse al mondo e il suo carattere riservato era diventato più ombroso dei tempi della nostra giovinezza. A Lucio non interessava la popolarità a differenza di molti artisti: voleva vivere una vita normale e capendo che le due cose non potevano coesistere, la sua risposta fu ferrea e per questo mal compresa».
Eravate molto diversi, per lei chi era Lucio?
«Era un amico sicuro, di cui mi fidavo ciecamente, una persona che sapevo mi avrebbe sempre ascoltato, forse in assoluto il mio più grande ascoltatore. La mia vera aspirazione era fare l’esploratore, ho sempre viaggiato tanto, ho visto mezzo mondo. Io, forse, per lui ero una piccola finestra su quel mondo che aveva scelto di chiudere fuori dai cancelli della sua bella casa».