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 2025  luglio 13 Domenica calendario

Intervista ad Amanda Sandrelli

Amanda Sandrelli, da ragazza voleva fare la psicologa. La sua sliding door la coglie una sera, a Roma, durante una festa. Ce la racconta?
«Era una festa che aveva organizzato mia madre a casa sua. Una casa grande che gira tutta intorno. A Roma, si sa, le feste o sono privatissime oppure sono strapiene di imbucati. Quella era del secondo tipo. Molto divertente».
E lì lei incontra Troisi e Benigni che la invitano subito a entrare nel cast di «Non ci resta che piangere». Cosa li colpì?
«Fisicamente ero giustissima per la parte. Avevo i capelli lunghi a tutta schiena, ero chiara di carnagione, un po’ tondina, avevo 20 anni e ne dimostravo 15. Ero rinascimentale. Io glielo dissi subito che non sapevo fare niente. Avevo dato la maturità tre giorni prima e non volevo fare l’attrice. Mi dissero che non importava. È stata un’esperienza bellissima. Mi ricordo che stoppavamo continuamente le riprese tanto ridevamo».

Troisi era molto apprezzato dalle donne. Tra voi è successo mai nulla?
«Assolutamente niente. Né con lui né con Roberto, che, tra i due, forse, era quello che poteva piacermi di più. Ho sempre preferito i tipi buffi. Erano in un momento magico loro due insieme. Si stimavano, erano straordinari».

Cinema ne sta facendo poco. Come mai?
«Sto benissimo a teatro. Forse mi piacerebbe di più fare una serie tv. Una cosa come Perlasca la rifarei al volo».
Ha detto: «Il teatro è come il sesso: è bello a tutte le età». È così?
«Il palcoscenico per me è magico. Quando non sto bene, in scena stacco il cervello, senza bisogno di niente, né droghe né altro. Penso di averlo fatto consapevolmente di prendermi il teatro come luogo di lavoro principale. È uno spazio solo mio. Né di mia madre né di mio padre».
Era importante affrancarsi?
«Io, lavorativamente sono una persona indipendente. Affettivamente, il contrario. Ho sempre bisogno di avere vicino chi amo».
Ha avuto un cancro, ne ha parlato poco. Come mai?
«Era il 2009, i miei figli erano piccoli e non volevo coinvolgerli. Sono stata molto fortunata perché l’ho scoperto che era al principio ed è bastata un’operazione. Sarebbe stato diverso se avessi dovuto fare una terapia. L’esposizione delle cose personali è molto faticosa per me, in questo caso avevo paura di banalizzarla. È anche senso del pudore. E sono fatalista. Mi capita però che mi chiedano di parlarne e sto iniziando a farlo di più, perché la prevenzione è fondamentale. Mi ha salvata».
Il suo amore più grande?
«Si dice che l’ultimo amore sia il più bello. Sto con Paolo (Giovannucci, ndr) da quattro anni e sto vivendo un periodo meraviglioso. Prima di lui c’è stato un “uomo ponte”. Ero ancora sotto botta dalla separazione. Blas (Roca-Rey, ndr) è stato l’amore più grande della mia vita».
Ha molto sofferto?
«Tantissimo. Ho passato notti a sognare di picchiarlo…ero molto arrabbiata».
L’ha perdonato?
«Non c’era nulla da perdonare. Non c’è stata alcuna mancanza di rispetto. Ha smesso di amarmi».
Ha tentato di riconquistarlo?
«Mai. Sono negata per le strategie e le tattiche. Ho però preteso di parlare. Ero convinta ci amassimo ancora…quando ho capito che la sua decisione era reale, ho mollato. Con molta collera».
È difficile immaginarla arrabbiata ferocemente…
«È il mio difetto principale. Ero convinta di non poterla controllare la rabbia. Con Blas abbiamo litigato dal primo giorno all’ultimo. Se tornassi indietro, cercherei di non farlo».
Da dove è ripartita?
«L’indipendenza affettiva ed economica sono le cose più importanti. La casa era mia. Lui, semplicemente, è uscito e, con calma, ha preso le sue cose. La separazione è stata ad aprile, ad agosto ero già in tournée. Senza di lui».

L’autonomia è una cosa che le ha trasmesso sua madre?
«L’ho sempre vista lavorare, proteggerci da tutto, l’esempio per me non poteva che essere quello. Senza nessun uomo alle spalle, ha saputo che film fare e ha costruito una carriera straordinaria. Però non è giusto si pensi che siano state tutte rose e fiori».
No?
«A un certo punto mi mandò a Milano a stare da mio padre e da sua moglie Anna. Lui lo desiderava da tempo. Per mamma era un momento difficile, non ne ha mai parlato. Mio fratello Vito era piccolo e lei e Nicky Pende avevano un rapporto molto complicato. Al punto che preferì allontanarmi. Non è stato facile. Può accadere a tutte le donne di vivere una storia che fa stare male. Perfino a una grande diva. Non bisogna vergognarsene, né accettare di soffrire».
La sua è stata una famiglia allargata.
«Se non è allargata, per me, non è famiglia. Diffido di ciò che è “chiuso”. Dagli 8 ai 13 anni ho vissuto da mio padre, ma lui non c’era mai. Quindi, ho vissuto Anna principalmente. Me la ricordo che ballava come una pazza, fumava, scarrozzava me e Giovanni sulla sua Bmw gialla…e ricordo anche sua mamma, nonna Matilde, la più nonna di tutte quelle che ho avuto. Minuta e con la r moscia, cucinava tante cose buone».
Suo fratello Giovanni è mancato a marzo. Come sta?
«Quando sono andata a Milano, da subito, con Giovanni siamo state anime gemelle. Lui era timido e tranquillo, io ridanciana e casinara. Non ci staccavamo mai…io questa cosa che è successa ancora non so dove metterla. Sono scioccata. Cerco di essere forte per sostenere Anna soprattutto, che è distrutta. Ed è molto sola, lei che sola non ci sarebbe mai voluta stare. Tanti amici non ci sono più».
Quello della sua infanzia è un bel racconto, anche di formazione sentimentale. Complessa ma bella?
«L’educazione sentimentale vera è cominciata quando sono uscita di casa. Ma è nei primi dieci anni di vita che sviluppi i tuoi valori. Mi ha cresciuta Gari, il nostro “tato”. L’aveva preso a lavorare mio nonno in rosticceria. Ci ha fatti venire su tutti: mia mamma da quando aveva sei anni, me, mio fratello e anche mio figlio Rocco, per un pezzetto. Era meraviglioso. Se c’era un bimbo o un animale nel raggio di qualche chilometro, andava subito in braccio a lui».
Lei è figlia di un grande amore?
«Mi hanno sempre detto così. Ed era importante saperlo, per me, perché questo amore non l’ho vissuto».
Suo papà, Gino Paoli.
«Per me è una specie di Superman. È come se non avesse paura di niente. E io per lui, paura, non ne ho mai avuta. Certo, adesso ha 90 anni…».
Neppure la depressione lo ha preoccupato?
«Lui conosce l’oscurità. Per un artista credo sia una cosa quasi fisiologica, un po’ come la depressione post partum. L’energia che ci mette in sala d’incisione e sul palcoscenico è tale che poi c’è per forza un calo. Mio padre è una persona molto complessa. Pesante, più per se stesso che per gli altri. Ci somigliamo molto, fisicamente ma soprattutto di carattere. Il significato di essere artisti io l’ho capito da lui».
La sua canzone che ama di più?
«Potrei nominarne cento. Ma io lo adoro quando canta Non andare via di Jacques Brel
(mentre ne parla, si commuove, ndr), mi piace tantissimo come la fa... ricordo quando, da piccola, piangevo mentre la intonava in scena. Lui mi prendeva in giro, diceva che alla mia età avrebbe dovuto piacermi La gatta. Mi fa piangere ancora adesso».