Tuttolibri, 12 luglio 2025
Per girare un capolavoro serve un romanzo mediocre
Chissà se alla casa editrice Garzanti si sono mangiati le mani quando, dopo l’immenso successo mondiale ottenuto da Alfred Hitchcock con Psycho, si sono resi conto che il libretto che avevano stampato due anni prima con l’assurdo titolo Il passato che urla era proprio il romanzo di Robert Bloch dal quale il maestro del brivido aveva tratto ispirazione per un film che aveva voluto realizzare contro il parere di tutti i produttori ai quali si era rivolto, rischiando il suo patrimonio personale e attendendo con il cuore in gola i risultati al botteghino quando finalmente uscì in sala.
In realtà, il film differisce parecchio dal libro. Robert Bloch, peraltro considerato uno degli scrittori di genere più amati dal pubblico, non applica nessuna delle sottigliezze di Hitchcock. I dialoghi tra Norman Bates e la madre sono raccontati come se avvenissero davvero, mentre Hitch più correttamente colloca gli stessi fuori campo, in modo che il finale abbia poi un senso compiuto e un effetto sorpresa memorabile. E per Hitchcock, se gli attori erano bestie da tenere soprattutto tranquille, i libri dovevano essere preferibilmente mediocri in modo da non intralciare la creatività del regista, unico vero demiurgo in campo. Sta di fatto che, quando il romanzo fu rieditato in fretta e furia sul nostro mercato con il titolo originale (compresa la acca che chissà perché è stata espunta sui titoli italiani), le vendite furono tutt’altro che esaltanti.
Esaltante fu invece il clamoroso successo del film, che proiettava Hitch in una dimensione diversa da quella delle commedie gialle che solo apparentemente erano film da signore. Qui il regista prende a pugni tutte le convenzioni. La protagonista femminile viene uccisa dopo poco meno di un terzo del film. Nella famosa scena della doccia si vede il coltello straziare la carne e il sangue colare: questo era fino a quel momento reso impossibile dal codice di censura Hays, promulgato negli anni Trenta e fino a quel momento pienamente in vigore (peraltro il fatto che il film sia stato girato in bianco e nero è proprio una scelta di cautela per rendere meno impressionante lo spargimento del sangue, che altro non era se non sciroppo di cioccolato dolciastro e ipercalorico della ditta Bosco, purtroppo ancora oggi in vendita negli USA).
I temi del film riguardano il travestitismo e la necrofilia, e la storia è ispirata al primo serial killer dichiaratamente maniaco, Ed Gein, che uccideva le donne, si vestiva al femminile e indossava una maschera ricavata dalla pelle delle sue vittime opportunamente scuoiata. Il romanzo non insiste su questi dettagli, il film li considera l’architrave del racconto. E Hitchcock mescola sapientemente una grande cultura nel campo della psicanalisi con piccoli geniali semplici espedienti, come quello di rendere gelata l’acqua in cui si bagna Janet Leigh nella fatale doccia, perché la sua espressione di stupore fosse più credibile.
Come sempre avviene quando un film ha un successo mondiale, fioriscono leggende, imitazioni, citazioni sul suo conto. Ed è significativo che tali fenomeni riguardino tutte sempre e solo la messa in scena, mai la scrittura, a conferma che è stato il film a sfondare nell’immaginario popolare e non il libro.
Tiziano Sclavi, il geniale inventore del fumetto Bonelli Dylan Dog, con il numero 243 uscito nel dicembre 2006 e intitolato L’assassino è tra noi, propone esplicite citazioni a partire dalla bellissima copertina disegnata da Angelo Stano che ci mostra l’investigatore dell’incubo sotto la doccia mentre un’ombra armata di coltello lo sta per colpire. La doccia nel romanzo, infatti, è l’ombra del ruolo che ha nel film. Pochi mesi dopo l’uscita del film di Hitchcock Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello interpretano per Steno Psicosissimo, parodia scatenata e molto divertente. E non è un caso se Giovanna la nonna del Corsaro Nero, il musical per ragazzi che è stato una colonna della Rai anni Sessanta, prevede nella canzoncina che i bambini imparavano a memoria una rima così concepita: «La vista sua soltanto fa venire lo chòc/ fa molta più paura d’ogni film di Hitchcòck».
Insomma: il romanzo non ha mai decollato (e nemmeno i due sequel che Bloch ha editato rispettivamente nel 1982 e nel 1990), gli altri film tratti dai suoi romanzi sono a volte piccoli gioielli come La morte dietro il cancello di Roy Ward Baker (1971, uno dei capisaldi del cinema gotico inglese), a volte stanche imitazioni delle atmosfere di Psycho. Nessuno comunque meritevole di fama imperitura come il film di Hitchcock, con il regista inglese che raccolse i frutti di quell’azzardo portato avanti testardamente e contro il parere di tutti. E li raccolse negli ambienti più inaspettati.
Vittorio Valletta, lo storico e temutissimo megadirigente della FIAT allora in piena espansione, decise di farsi un regalo e di invitare il regista inglese a visitare gli stabilimenti di Mirafiori, all’epoca un vero e proprio formicaio e con linee di montaggio di dimensioni mai viste. Hitchcock accettò, gli operai lo riconobbero e lo applaudirono e il regista inglese stimolato dall’aver verificato la sua popolarità propose un film sui due piedi. Una scocca percorreva tutta la catena di montaggio: chi fissava i cristalli, chi metteva i cerchioni, chi curava la verniciatura. Alla fine l’utilitaria usciva bella, fiammante e pronta per l’uso. Qualcuno apriva la portiera, e la macchina da presa scopriva un cadavere: la storia del film partiva da questo inizio veramente originale. Inutile dire che il film non si fece mai, perché abbinare la linea di montaggio a un cadavere non era esattamente l’immagine che l’azienda voleva veicolare: ma questo inizio rimane nell’empireo dei film mai realizzati con la certezza che ci sarebbero state atmosfere ancora più terrificanti di quelle di Psycho, a tutt’oggi uno dei thriller più famosi e citati della storia del cinema, il film che ha reso la doccia un luogo non di relax ma di intima, insana, terrificante paura.