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 2025  luglio 12 Sabato calendario

Intervista ad Antonello Venditti

Definizioni: «La gioventù è quella cosa che quando la vivi somiglia a un inferno e quando la ricordi è un paradiso». A 76 anni, dopo un’esistenza enciclopedica, l’unico credibile biografo di Venditti è Antonello stesso. «Non ho dimenticato quasi niente, neanche quanto pesavo alla nascita».

Ci stupisca.
«Un chilo e 400 grammi. Sono il frutto di una specie di miracolo. Venni al mondo all’ottavo mese, ero destinato alla morte. Poi mia madre sognò San Francesco Saverio: le disse che mi sarei salvato e, esagerando, che avrei avuto una vita luminosa per me e per gli altri».


A casa sua erano molto credenti?
«Mio padre era laico e sulla sua laicità non permetteva a nessuno di mettere bocca, ma mia madre e mia nonna Margherita, detta anche Sora Rosa, erano così cattoliche che la domenica non andavano a una sola messa, ma a tre».

E lei?
«Mi svegliavo presto, mangiavo tre rosette con il sugo e andavo in chiesa con mia nonna. Poi tornavo a casa, pronto per la messa borghese di mezzogiorno con mia madre e a sera, ancora con mia nonna, divoravo un paio di gelati mi toccava la messa vespertina».

Ha raccontato di essersi sentito molto solo sia nell’infanzia che nella prima adolescenza. La solitudine l’ha aiutata a diventare un artista?
«Insieme alla forza interiore, una forza si è riverberata fino a oggi, è stata decisiva».

A 6 anni, dietro una porta, lei ascoltò sua madre dire a suo padre: «Nostro figlio è un cretino».
«Fu doloroso anche perché i bambini non hanno il senso dell’ironia. Ne soffrii, presi nota e covai una sorta di odio che mi portò a scrivere un pezzo come Mio padre ha un buco in gola. In quella canzone ci sono io».


La scrive nel 1973, a 24 anni e mette in musica lo sterminio della sua famiglia.
«È il diario di un killer, una canzone in cui confesso di aver desiderato la morte di mia madre, un complesso trattato di psicanalisi in cui da un lato nego ciò che ho appena commesso e dall’altro cerco scuse per giustificare il mio omicidio».

Cosa ricorda dei suoi 18 anni?
«Un bellissimo viaggio di tre mesi attraverso l’Europa con un amico».

In “Giulio Cesare” ne resta un frammento: «L’estate è nell’aria/brindiamo alla maturità/L’Europa è lontana/viva la libertà».
«Arrivammo a Capo Nord, insieme a India e Tibet, una delle mete della mia generazione. Partimmo dopo gli esami e tornammo a ottobre senza soldi né benzina. L’auto, una 500, ce l’avevano sventrata i gendarmi a Chiasso cercando droghe inesistenti. A un certo punto non ce la feci più e ripartendo, chiusi con intenzione la cravatta del doganiere nel finestrino. Gli feci fare una ventina di metri di corsa».

Lei si è descritto come un pontiere tra due mondi, la destra e la sinistra, in anni in cui l’appartenenza politica coincideva con il rischio fisico.
«Quel periodo non è stato ancora ben raccontato da nessuno. Ci siamo rassegnati a chiamarli anni di piombo, ma non sono stati solo quello».

Che anni sono stati?
«Anni governati da un potere neanche così occulto in cui chi era ragazzo si è trovato a essere la pedina di un gioco che avrebbe schiacciato chiunque. Una storia piena di segreti, contraddizioni, mimesi e infiltrazioni che in parte ho avuto la fortuna di poter leggere grazie a mio padre. Da funzionario dello Stato, da Viceprefetto, mi avvertiva dei pericoli. E pur sapendo perfettamente chi avevo di fronte, chi diceva di essere di sinistra e magari era fascista, malgrado sapessi che le acque erano inquinate, ho deciso di partecipare e di nuotare comunque in quel periodo».

Come mai?
«La voglia di fare e l’ispirazione creativa erano fortissime, credevo veramente si potesse cambiare il mondo».

Si è mai sentito una pedina?
«A livello storico, lo siamo stati tutti. A livello personale invece no. Non sono mai stato una pedina, ho vissuto il mio ’68, la mia ribellione e la voglia di costruire un mondo diverso passando anche dalle canzoni».

Ha detto che il ’68 le ha insegnato a sdegnare il potere, anche quello dell’autografo.
«Era un’iperbole. Sono sempre stato favorevole all’autografo a patto che fosse motivato, non avesse a che fare con il divismo e non rappresentasse l’idea che fossi diverso o migliore degli altri. Adotto lo stesso metodo con il selfie: perché vuoi una fotografia? Se mi convinci la facciamo».

Altrimenti?
«Altrimenti no. La gente si stupisce perché trova il selfie una specie di diritto naturale. Sembra dire: “tu esisti perché esistiamo noi”, “sono io il tuo successo”, “se non ci siamo noi non ci sei neanche tu”. E invece non è vero. La poesia esiste al di là del successo di un poeta. Un bel film c’è anche se lo vanno a vedere in pochi. Se il selfie diventa uno strumento di potere e assume un’aria vagamente ricattatoria e commerciale preferisco non farlo».

Nella prima fotografia c’è il Folkstudio. Ci sono i quattro ragazzi con la chitarra: Bassignano, De Gregori, Lo Cascio e lei. Le mani gelate nei cappotti in Via Garibaldi, la fatica e l’incertezza. Cosa sono stati quegli anni?
«Per descriverli ci vorrebbe lo stesso numero di anni che sono passati. Ogni giorno era diverso. Ogni giorno un’avventura. In ogni cosa che facevamo c’erano una parte di felicità e una grandissima dose di infelicità. Ma eravamo dritti, noi quattro: con personalità distinte e molto forti, che a volte si interscambiavano, con dei caratteri magari, ma dritti».

Una persona che a 13 anni scrive “Sora Rosa” sa che sta nascendo una cosa importante?
«Sapevo che stavo scrivendo delle cose importanti per me. Avevo vissuto già esperienze fortissime ed ero un giovane vecchio. Un anno di allora, da questo punto di vista, ne vale 10 di oggi».

Dove claudicava l’esperienza?
«In campo sentimentale e sessuale. La cosce delle ragazze, in Notte prima degli esami, sono chiuse come le chiese. L’approccio all’amore e al mondo femminile era incerto e pieno di stupore. Lo stupore è rimasto».


Un’estate, a Olevano Romano, lei dimagrì di 20 chili.
«Ne persi 32. Quando sei grasso ti prendono in giro, ma a me pesò relativamente. Lo sguardo degli altri è meno importante di quello che ti rivolgi e io con me stesso non sono mai stato indulgente».

Quello degli altri però cambiò.
«Cambiò. Quando uno è grasso e poi diventa improvvisamente magro pero resta grasso dentro. Non si cambia in 5 minuti, ti devi allineare, abituare al tuo nuovo corpo, conoscerne il linguaggio. Ogni metamorfosi ha un prezzo».

L’amore del tempo, ha detto, era «sempre immaginato». Quando iniziava una storia pensava potesse durare per sempre?
«Sa che non me lo ricordo? So solamente che l’epoca in cui ero grasso, mi ha aperto la strada di una pazzesca sorellanza con il mondo femminile. Mi sono sempre immedesimato nelle donne che cantavo: Marta ero io».


Le sue canzoni si vedono: sembrano film.
«Già tendo a fare troppo, meno male che non li ho girati. Sicuramente la struttura a volte li ricorda e la scrittura è passata indenne attraverso le generazioni».

"Notte prima degli esami” è eterna.
«Eterna e circolare. Gira, ricomincia e non finisce mai».

"Le bombe delle sei non fanno male”.
«È una canzone piena di mistero. Sono le sei di mattina o le sei di sera? Si parla di cornetti o di bombe vere? L’evocazione e fortissima e il mistero della poesia riguarda anche me, perché Notte prima degli esami non ha nessuna razionalità, o meglio la trova nella completa irrazionalità. Quando si accendono le luci sul palco si passa al flashback, non sai più se sia sogno o realtà, ti confondi».

Dell’illusionismo, Fellini era maestro. Come canta nel pezzo che gli ha dedicato: “Federico è solo un sogno, una macchina del tempo”.
«Dopo quella canzone mi scrisse una lettera in cui mi invitava sul set di E la nave va e per qualche mese mi fece vivere la sua vita che era divertente perché Federico prendeva in giro tutti. Andavamo al ristorante e il proprietario, forse anche per non pagare, diventava una comparsa per la mattina dopo. Era creatività anche quella, non solo girare una scena senza avere uno straccio di copione in mano».

Sul tema, l’aneddotica è sterminata.
«Ma Fellini ti prendeva in giro anche in quel modo: faceva pensare di essere impreparato ed era preparatissimo. Fingeva che la creazione prendesse piede nell’istante e invece ciò che accadeva sul set era il prodotto di ciò che aveva immaginato per settimane».

Lei covò il sogno di realizzare la colonna sonora di “C’era una volta in America”. Iniziate a discuterne con Leone, lei gli dice tutto ciò che dal suo punto di vista non la convince del film e Leone la manda a fare in culo.
«Con Sergio Leone ho avuto un rapporto meraviglioso. Mi telefonava alle ore più inverosimili e si faceva passare di nascosto il cibo mentre le sue figlie erano distratte. Mi bastava un decimo di secondo e gli passavo sottobanco qualsiasi cosa».


Lei ha definito la creatività un insieme di «piccoli decessi e improvvise epifanie». Come si conciliano creatività e successo?
«Non sempre si incontrano. Se legge le interviste di quelli che hanno un esito repentino si accorge che la depressione da successo è un tema serio. Ci sono ragazzi che dicono “non me lo merito”. Non dovrebbe capitare, ma capita».

Lei è stato depresso?
«Ho avuto una depressione totale, ma il successo non c’entrava. Mi ero separato, la mia vita stava cambiando, vivevo vicino a Milano e avevo un figlio a Roma. Fu un momento complicato».

Ha pensato al ritiro?
«La mia vita privata era precipitata in quella artistica e quindi un dubbio, chiamiamolo comportamentale, mi venne. Non ero più sicuro di me stesso, di cosa volevo, delle mie azioni. Il dubbio ti colpevolizza, ti inibisce, ti blocca. E quel blocco per un certo periodo mi mandò in paranoia e mi mise paura, persino di andare su un palco. Pensavo di non saper cantare, avevo timore del pubblico».

Come la superò?
«Mi salvò Lucio Dalla. Essendo un folletto riusciva a capire cose che gli altri non coglievano. Mi trascinò via da Roma e mi portò al Castello di Carimate. Cominciai ad andare ai suoi concerti e a suonare. Con Lucio riuscivo a sopportare il peso della mia inadeguatezza umana, musicale e artistica e al tempo stesso a non sentire su spalle che non ne avrebbero retto il peso, la responsabilità di un mio concerto. La gente era contenta di vedermi, ma neanche gli applausi riuscivano a convincermi della bontà del mio lavoro. Li trasformavo in critiche e in dissenso, ma in verità, l’ho capito solo dopo, il dissenso ce l’avevo con me stesso perché dovevo risolvere i problemi personali. Passai attraverso un inferno e poi, così com’era arrivato, il malessere sparì. Prima lentamente e poi del tutto».

C’è un momento esatto per la resurrezione?
«Al Circo Massimo, una sera, ebbi l’esatta sensazione, la percezione nitida di essere amato».

Una bella sensazione.
«Un giorno in paradiso. Il momento in cui la mia creatività comincia a essere molto più felice. Pensavo ancora che le belle canzoni fossero solo quelle nate in uno stato di disagio, angoscia, dolore e lacrime. Ho scoperto che esistono anche quelle di gioia. Una cosa importante, le pare niente?».

Le piace raccontarsi?
«Poco. Le interviste ti costringono a ripercorrere il passato. Sa perché sto bene? Perché il passato è passato. Rileggere la mia vita mi provoca sofferenza. E poi c’è una cosa che devo dire».

Prego.
«Quando parlo di me io non parlo veramente di me. Ho una sorta di sdoppiamento».

E di chi parla?
«Di un altro, di mio fratello Antonello, del cantautore. Io sono una cosa, chi sta sul palco un’altra. Il pubblico lo sa».

Nanni Moretti dice che non ha mai fatto cinema per compiacere il suo pubblico.
«Sto rivedendo i suoi film e penso che a Moretti non solo la sinistra, ma tutto il cinema italiano dovrebbe fare un monumento. È stato sottovalutato come regista e come creatore di musical. Musicalmente fa scelte originali e sorprendenti. Che Moretti non abbia mai preso una mia canzone un po’ mi dispiace». (Sorride)

Lei le trova attuali?
«Tutte. E non mi sono mai domandato se oggi, nel tempo dei talent, sarei riuscito o meno ad affermarmi. Ogni epoca trova quel che trova: confrontarle è difficile e forse anche poco onesto».

Non considero il mio percorso una carriera musicale. O mi chiami Antonello o mi chiami testa di cazzo.
«Quello che proprio odio è essere chiamato maestro. Maestro è proprio l’opposto di ciò che penso della vita e cioè che alla fine il maestro della tua vita sei tu».


Ornella Vanoni ha detto: «Sono stanca di essere Ornella Vanoni». Le è mai capitato di non poterne più di essere Venditti?
«È accaduto anche a me, certo. Quando ti innamori vuoi la tua intimità, ma per uno come me che si porta dietro un bagaglio ingombrante, amori normali e vita privata sono una chimera.
Mi è successo di voler scomparire e di non poterlo fare. Di voler essere invisibile e non riuscire ad esserlo».

Quanto è cambiato dai tempi della Rca di Ennio Melis a oggi?
«Oggi riesco a riconoscere storicamente i meriti di dirigenti come Melis, ieri ero polemico».

Era difficile avere a che fare con lei?
«Veramente tanto. Al povero Melis regalavo un numero che avevo denominato gatto selvaggio. Alle due di pomeriggio, ogni giorno, superavo sbarramenti e segretarie, mi mettevo davanti al suo ufficio, spalancavo la porta e me ne andavo. Provocavo per il gusto di provocare, facevo il mio gesto libertario e mi dileguavo. Situazionismo puro».


Ha avuto un amico che le dicesse «questo disco è sbagliato?», «questa canzone non mi piace?».
«No, perché oggi i miei dischi li faccio con gli amici. Fino agli anni 90 ero un despota, un pazzo, un criminale. Facevo un album e sbranavo le persone. Ero invasato, intimidatorio, ossessivo. Lei non sa quanti chitarristi e bassisti ho sotterrato». (Sorride).
Perché si comportava così?
«Cercavo di provocare uno choc. Di farli suonare al meglio. Li trattavo più come strumenti che come strumentisti. Poi mi sono calmato. Oggi i musicisti li lascio esprimere, trovo una sintesi, mi confronto. La visione è più democratica di ieri».

Se ne è andata l’inquietudine?
«Non solo non mi sento inquieto, ma posso dire di essere quieto. Il tempo non è più un’angoscia: scorre al mio ritmo, è relativo, in un certo senso non esiste».

Pensa mai alla morte?
«Fa parte della vita e quindi ci penso. Ma non ho soluzioni e non le cerco. Mi affido e aspetto. In fondo sulla vocazione all’eternità abbiamo costruito il nostro mondo».

Vorrebbe arrivare sul palco a più di novant’anni, come Aznavour?
«Intanto arriviamoci. Se poi avrò ancora voglia di cantare glielo farò sapere».