La Stampa, 11 luglio 2025
Intervista a Sayf
Per portare un po’ di soldi a casa ha fatto il panettiere, il lavapiatti e il cameriere. Ma «se Dio vuole la strada si apre», e per Sayf – all’anagrafe Adam Sayf Viacava, 26 anni, nato a Genova – si è aperta eccome, grazie al rap. Nonostante le difficoltà che la vita gli ha messo davanti, nelle sue canzoni non c’è traccia di rabbia e malumore. Ed è proprio per queste vibes positive, unite a un timbro unico e a uno stile eclettico, che i suoi pezzi hanno milioni di ascolti su Spotify. Domani salirà sul palco di Collisioni ad Alba con tutta la sua energia.
Papà italiano e mamma tunisina, da bambino che musica ascoltava?
«Mio padre sentiva De André e la PFM. E mia madre la musica algerina raï».
Come ha iniziato?
«Pagavo le registrazioni 20 euro l’ora. Ma chi lavorava in studio vedeva che ci credevo e mi dava una mano».
Quando ha capito che poteva diventare un lavoro?
«Non c’è stato un momento preciso. Mi sono buttato e ho mollato il lavoro, anche se non avevo un euro».
Un rischio grosso.
«Grossissimo. Era un periodo difficile. Non avevo molti soldi, mangiavo anche una pizza ogni due giorni».
Poi si è trasferito a Milano.
«Sempre con pochi soldi in tasca. A Sesto San Giovanni stavamo in tre in un bilocale. Vivevo con la disoccupazione. Poi il Covid ci ha messo in ginocchio, e sono tornato a lavorare in Liguria».
È cresciuto in un contesto difficile.
«Quando avevo quindici anni mio padre andava alla Caritas. Non è una cosa che mi pesa raccontare, ma ha influito tanto sul mio modo di vedere il mondo».
Nei suoi testi c’è pochissima rabbia.
«L’ho vissuta da ragazzino. Ma oggi non mi serve».
Canta: “In strada no depressione”. È un motto?
«In certe situazioni devi stare lucido. Non puoi permetterti di farti schiacciare. Se molli, rischi di finire a vivere per strada. E anche in Italia non è una cosa così lontana dalla realtà».
Oggi è più difficile emergere?
«Chi ha davvero la passione continua. Tanti iniziano, ma pochi restano. E chi ci crede davvero trova i mezzi, perché oggi ce ne sono molto di più».
Come i social?
«All’inizio li odiavo. TikTok mi imbarazzava. Poi ho capito che se hai uno strumento utile, allora devi usarlo».
Sogna in grande?
«Sogno la tranquillità. Una famiglia, un po’ di serenità. Non mi interessa la gloria».
Si è esposto su Gaza.
«È una questione di umanità. Quando mancano le istituzioni, è giusto che la gente si faccia sentire».
Questo senso civico da chi l’ha ereditato?
«Mio nonno è stato in un campo di concentramento. Il mio bisnonno guidava rivolte contadine. E poi da mia madre, la cultura araba mi ha trasmesso il valore dell’aiuto reciproco».
Il rap viene spesso accusato di sessismo.
«Una canzone è una fotografia di un momento, come un film che racconta qualcosa di pesante. Non vuol dire andare in giro a insultare le ragazze».
I rapper sono ancora i cattivi?
«Piano piano qualcosa sta cambiando. Il rap domina le classifiche ed è impossibile ignorarlo».