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 2025  luglio 11 Venerdì calendario

L’esercito di 6.000 manager tra tetto agli stipendi e premi distribuiti a pioggia

È un esercito variegato quello dei dirigenti della Pubblica amministrazione. Seimila e passa “manager” che da tempo sono sotto i riflettori della politica. Sono divisi in due ruoli, quello apicale delle cosiddette “prime fasce”, che comprende per esempio i capi dei dipartimenti, e quello delle “seconde fasce”. Nelle Funzioni centrali ci sono 414 i dirigenti di prima fascia e oltre 3.250 i dirigenti di seconda fascia. A questi si aggiungono 1.080 professionisti degli enti pubblici non economici, come avvocati e tecnici, e 1.406 dirigenti e professionisti medici e sanitari impiegati in strutture come Aifa, Inps, Inail e il ministero della Salute. Tutti questi dirigenti costituiscono quella spina dorsale della burocrazia italiana, che più di una volta è finita sul banco degli imputati, accusata di essere uno dei lacci all’azione dei governi e all’attività delle imprese. Nel gioco dei pesi e contrappesi, più di un governo ha provato nel tempo a “controllare” il potere di quello che in America viene definito il “deep State”, lo Stato profondo. Il governo Renzi per esempio, provò a riformare la dirigenza imponendo un ruolo unico per le prime e le seconde fasce. Fu costretto a una repentina marcia indietro. Chi forse è riuscito a fare più male all’alta burocrazia pubblica, è stato il governo Monti. Durante la crisi dello spread introdusse una norma che limitava a 240 mila euro lo stipendio massimo per i dirigenti dello Stato, Una norma, che seppure ammorbidita (il tetto può salire solo per “accogliere” gli eventuali aumenti contrattuali), resiste ancora oggi. Anche se crea alcuni paradossi. Come per esempio mettere sullo stesso piano una figura come il direttore del debito pubblico italiano, che ogni anno deve collocare sul mercato dei capitali centinaia di miliardi di titoli pubblici, e magari un dirigente dell’autorità degli scioperi che non riesce nemmeno a evitare un disagio agli utenti. Ma tant’è. Tutti i tentativi di esentare almeno alcune figure dal tetto, come il capo della Polizia, quello della Guardia di Finanza o il Ragioniere generale dello Stato, fino a oggi si sono infranti sul muro del populismo. È pure vero che i dirigenti ci hanno messo del loro. Hanno distribuito (e ottenuto) premi a pioggia, senza mai un vero legame tra la loro attività, quella dei loro dipendenti, e il merito. Come ha più volte certificato la Corte dei Conti, hanno scelto il “quieto vivere” premiando con voti massimi quasi tutti i loro sottoposti. E con lo stesso criterio sono stati valutati.
IL PASSAGGIO
Più di una volta il ministro per la Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo ha sottolineato come di fronte a una dirigenza pubblica che valuta, e si valuta, sempre al massimo livello, dovrebbe corrispondere una macchina pubblica che marcia alla velocità della luce e senza intoppi al motore. Cosa che evidentemente non è. Per questo è appena approdato in Parlamento un disegno di legge battezzato, appunto, del “merito”, che si propone di mettere fine a questo costume, permettendo di assegnare un voto massimo solo al 30 per cento dei dirigenti pubblici, e quello di eccellenza soltanto al 20 per cento.E in più apre una grande sfida per i “manager” delle amministrazioni: quella di riuscire a promuovere i funzionari più bravi, aprendo a questi ultimi le strade della dirigenza senza dover passare per un concorso pubblico. È una sfida complessa, che presuppone un cambio di mentalità della stessa dirigenza. Non più bravissimi tecnici espertissimi di diritto e cavilli giuridici, ma gestori di risorse. Una vera scommessa.