Corriere della Sera, 10 luglio 2025
«Volare nacque il giorno in cui Modugno gli diede buca. Scoprì Gianni Morandi per caso inciampando su un suo nastro»
Il giorno che avrebbe cambiato la storia della musica.
«Franco, nostro padre, ce l’ha sempre raccontata come una giornata storta; con l’ennesima delusione a guastargli l’umore già cupo a causa dei soldi che non bastavano mai, della carriera di attore che non decollava. Abitava a pensione dalla signora Eufemia in una stanza a via Vittoria, nel centro di Roma. Agosto pieno, caldo afoso: il suo amico del cuore, Mimmo Modugno, gli aveva telefonato la sera prima dicendogli che sarebbe passato a prenderlo in auto insieme a due amiche per andare al mare. All’appuntamento papà si presentò, Mimmo e le due amiche no. Papà li aspettò per un paio d’ore, poi tornò a casa arrabbiatissimo. Aveva comprato una fiaschetta di Chianti per provare a farsi conciliare un sonno fuori orario: due-tre bicchieri e quelle riproduzioni di Chagall che aveva appese alle pareti nella sua stanzetta, di cui una con un omino con mezzo volto blu, presero vita nella sua testa. Finalmente si addormentò. Al risveglio corse a prendere carta e una penna e appuntò: “…E volavo felice ancora più su, mentre il mondo spariva lontano laggiù… volavo nel blu, dipinto di blu…».
Francesco junior ed Ernesto, insieme alla sorella Laura, sono i figli dell’autore Franco Migliacci, che ha dato vita ad alcune delle più celebri canzoni italiane del Novecento. Scomparso nel 2023 a novantadue anni, ha scritto – oltre a Nel blu dipinto di blu, insieme all’amico Modugno – i pezzi più importanti della carriera di Gianni Morandi, più Tintarella di luna, Ma che freddo fa, Il cuore è uno zingaro, Che sarà, Ancora di Eduardo De Crescenzo e altre hit sempreverdi. Le voci dei fratelli Migliacci si impastano diventando una sola. La storia del loro papà, che chiamano «Franco», prende corpo.
Com’era finita quella giornata?
«Modugno chiamò Franco per dirgli che alla fine, delle due ragazze, se n’era presentata una sola: Franca Gandolfi, che sarebbe diventata sua moglie».
Vostro padre lo perdonò?
«Lo prese a male parole. Vivevano come fratelli, facevano avanti e indietro da Cinecittà, dove si erano conosciuti per il film Carica eroica; Mimmo aveva già raccolto soddisfazioni in campo musicale prediligendo perlopiù canzoni folk dialettali, papà lo punzecchiava sul cantare in italiano. Stanco delle sue critiche, Modugno lo invitava a scrivergli una canzone in italiano. “Ho qui con me il testo, che ho iniziato a scrivere dopo che mi hai dato buca”, gli disse. “Ma lo darò a qualcun altro”, aggiunse Franco quel giorno. Mimmo gli strappò il foglietto dalle mani e insieme ci lavorarono per sei mesi, litigando tutti i giorni».
Sul testo?
«Papà non digeriva quel “che sono blu come un cielo trapunto di stelle”, scritta da Modugno. Gli ricordava la trapunta che usano gli anziani col freddo».
Successo planetario.
«Li invitarono negli Stati Uniti. A una cena con tutti i principali discografici americani, Modugno e papà vennero messi a sedere in un tavolo d’onore rialzato e guardavano dall’alto mostri sacri tipo Ella Fitzgerald e Paul Anka. Si chiesero il perché. “Perché voi ora number one”, gli rispose un capoccia della Rca americana. “Se l’anno prossimo voi no number one, voi tavoli giù insieme agli altri”».
Da che famiglia veniva vostro papà?
«Nonno Ernesto, fiorentino, era un maresciallo della Guardia di Finanza che era stato mandato a Circhina, in Jugoslavia. Lui e i suoi due figli, la zia Elena e papà, riuscirono a tornare in Italia prima che iniziassero le rappresaglie. Li salvò il sacrificio della nonna».
Cioè?
«Franco perse la madre a tre anni perché i medici scambiarono per un’indigestione di olive un’appendicite che stava diventando peritonite. Vedovo e con due figli, a nonno Ernesto fu concesso di tornare in patria».
«Nel blu dipinto di blu» gli cambiò la vita?
«Non solo a papà. Grazie a quel successo, lui e Mimmo volano in America. E in America papà capisce che c’è un mercato di teenager e ragazzini che in Italia discograficamente, e non solo discograficamente, non esisteva. Tornò a casa con un tarlo: cercare a tutti i costi un ragazzino che sapesse rivolgersi ai teenager nostrani con il loro linguaggio».
Lo trovò?
«Si chiuse dentro la Rca a cercare tra i provini delle voci giovani e acerbe. E un giorno disse al responsabile dell’archivio “oh, se ti arriva qualcosa da un ragazzo che ha queste caratteristiche, chiamami subito”. Ce la raccontò sempre così: mentre faceva per andarsene, inciampò in un nastro. Lo prese come un segno del destino: fece montare la bobina e venne fuori la voce di un ragazzetto che con cadenza bolognese cantava “non arrossire quando ti guardoooo”. Sul nastro c’era scritto: Gian Luigi “Gianni” Morandi».
L’inizio di un grande sodalizio.
«Dopo i successi di Andavo a cento all’ora e Fatti mandare dalla mamma, papà capì che l’evoluzione di quel ragazzo era la sofferenza amorosa, e quindi In ginocchio da te. Ma Ennio Melis, il grande capo della Rca italiana, non ne voleva sapere: arrivò a vendere un milione e 400 mila copie, con papà che a ogni aggiornamento dei dati di vendita si affacciava nell’ufficio di Melis stendendo la gamba e picchiettandosi ripetutamente il ginocchio per prenderlo in giro».
Poi vostro padre e Morandi litigarono?
«Non è che litigarono. A un certo punto, dopo il ’68, la carriera di Gianni si fermò. Nel 1971 Franco invitò Morandi a prendersi Che sarà, convinto che l’avrebbe rilanciato alla grande. Gianni nulla, disse che voleva cantare Il cuore è uno zingaro. E nostro padre: “Gianni, credimi, Che sarà è più da cantautore, dammi retta...”. Non ci fu nulla da fare; Morandi, però, col tempo ammise di aver preso un abbaglio».
Smisero anche di vedersi?
«Le nostre famiglie abitavano a Tor Lupara, vicinissime. Noi andavamo a scuola con Marianna e Marco, i figli di Gianni, per cui ogni tanto gli capitava di incrociarsi. I rapporti si erano raffreddati, nostra madre Gloria ne soffriva. Ma il legame affettivo, seppur celato, restava».
Poi, tanti anni dopo, «Uno su mille». La rinascita di Morandi.
«Gianni era rientrato con Canzoni stonate e La mia nemica amatissima scritte da Mogol, che avevano avuto qualche riscontro ma nulla a che vedere coi vecchi numeri. Un giorno chiamò papà per dirgli che gli era capitata tra le mani una musica di Roberto Fia che considerava potente. Papà la ascoltò e gli disse “dammi qualche giorno”. Quando si rividero fu nel salotto di casa nostra».
Come andò?
«Papà, stonatissimo, iniziò a canticchiare il testo che aveva scritto per quella musica. “Ricantamela, Franco”, gli disse Morandi. A un certo punto Gianni prese questo prototipo di telefono portatile che aveva in una valigetta e chiamò in Rca: “Fermate la stampa del disco, cambiamo tutto a partire dal titolo: si chiamerà Uno su mille”».
Retroscena di una canzone: «Tintarella di luna».
«Papà frequentava una ragazza che si lamentava perché le sue amiche erano abbronzate mentre lei, che stava appresso a lui che lavorava sempre, il mare non lo vedeva neanche col binocolo. “E tu di’ che vai la notte, hai la pelle candida perché ti esponi alla luna”. Finì la frase e chiamò il cameriere per farsi portare carta e penna, prima che quel testo gli sfuggisse via. La ragazza si imbestialì ancora di più».
«C’era un ragazzo».
«Una cosa ripeteva papà all’infinito. “Se volete fare questo mestiere, prestate grande attenzione a due cose: il modo di parlare delle persone comuni, che spesso tirano fuori delle perle che sono pezzi già scritti, e i titoli dei giornali”. Seduto al Bar Canova in piazza del Popolo, a Roma, lesse un articolo che raccontava dei ragazzi americani che strappavano la cartolina con la chiamata alle armi per il Vietnam. Il resto è storia».
È vero che temeva ritorsioni dagli Stati Uniti?
«Quando Gianni la interpretò in diretta tv, nel secondo ritornello cantò la frase sul Vietnam nonostante la censura della Rai l’avesse depennata. Dietro le quinte papà sbiancò ma sotto sotto lui, che era un pacifista accanito in contrapposizione al padre che era stato maresciallo, era felicissimo. Seguirono anche delle interrogazioni parlamentari, tanto per fargli aumentare l’angoscia. Qualche tempo dopo dall’Ambasciata americana telefonarono a casa. E lui: “Lo sapevo che prima o poi avrei pagato il conto”. E invece...».
E invece?
«Gli Stati Uniti gli chiedevano di garantire per Lucio Battisti, che aveva chiesto un visto per andare a incidere i suoi pezzi in inglese negli States. Per dire di quanto lo stimassero».
Dove scriveva Migliacci?
«Molte canzoni sono nate in macchina. Si parcheggiava in un certo punto, guardava le persone camminare e il pezzo arrivava».
Che padre è stato?
«Sapeva essere il padre più buono e generoso ma anche il più severo. Su e giù, proprio come l’oscillazione di un brano in classifica».