la Repubblica, 10 luglio 2025
Dalla Cina con furore l’ arancia che stregò Galileo
La parola che lo indica nella nostra lingua proviene dal persiano: narang. Tuttavia, l’origine geografica dell’arancio, l’albero più diffuso al mondo appartenente alla famiglia delle rutacee, è stata a lungo un piccolo mistero. Lo si ritiene originaria della Cina, da dove fu importato in Spagna e in Portogallo, tanto che in varie lingue (latine, arabe, germaniche) i frutti sono chiamati “portogalli”.
Come gli altri agrumi (che ci danno limoni, cedri, mandarini, clementine, lime, pompelmi, chinotti, bergamotti) l’arancio è senza dubbio una pianta migrante. Secondo Giuseppe Barbera, autoredi Agrumi. Una storia del mondo (il Saggiatore), nello Yu Gong – testo arcaico cinese detto anche Tributo di Yu,dove si narra della dinastia Xia (circa 2195 a.C.–1675 a.C.), vi è un preciso riferimento a un carico di agrumi. Non si sa, spiega ancora Barbera, come gli agrumi, e dunque anche l’albero dell’arancio, siano arrivati nel Mediterraneo, per quanto si ipotizza che il loro viaggio sia partito dalle regioni occidentali dell’India, su battelli spinti dalle correnti favorevoli dei monsoni, oppure per mezzo di carovane via terra che andavano verso l’Arabia. Anche se è in Persia che finiranno per scoprirli i mercanti greci, sempre in cerca di buoni affari. Teofrasto (371 a.C.-287 a.C.), allievo di Aristotele, nel trattato di botanica De causis plantarum propone la prima descrizione in Occidente di un agrume. Ragione per cui siamo quasi certi che nella sua epoca gli agrumi erano presenti inGrecia. Diventate ben presto famose, le arance vengono assimilate a un mito: il Giardino delle Esperidi. Insieme al cristiano Eden, le due storie diffondono l’immagine del locus amoenus, così che la coppia giardino e frutteto diventa una sola cosa, condizionando sia la coltivazione in senso stretto sia l’immaginario.
A giungere in Occidente fu però dapprima l’arancio amaro (citrus aurantium ), che nasce dall’ibridazione del pomelo con un mandarino. I botanici l’hanno ritrovato allo stato selvaggio nel nordest dell’India e nelle foreste del sudovest della Cina. Le arance dolci (citrus sinensis ) sono invece arrivate da noi alla fine del XV secolo. Si dice che sia stato Vasco da Gama, che raggiunse l’India passando per il Capo di Buona Speranza, a portarlo: da qui il primato portoghese nel suo commercio. Ma c’è anche chi avanza l’ipotesi che a diffondere le piante siano stati i mercanti genovesi che le propagarono nel Ponente ligure, in particolare a Sanremo, soppiantando la specie amara.
Come nel caso dei meli, a raccoglierne i preziosi semi originari fu Nikolaj Vavilov, il geniale botanico russo fondatore dell’“Istituto pansovietico di coltivazione delle piante”, fucilato in epoca staliniana. Vavilov individuò nella regione indo-birmana i piccoli alberi e i cespugli da cui provengono i progenitori degli aranci e degli altri agrumi, proprio là dove scorrono grandi fiumi, tra cui lo Yangtze, il “fiume azzurro”. Oggi esistono centinaia di varietà di arance, a polpa bionda e polpa rossa, alcune delle quali sono state brevettate. E si dividono per ragioni d’uso tra arance da spremere e arance da sbucciare a tavola. L’importanza storica degli agrumeti in Sicilia, terra dove l’arancio fu prestissimo introdotto, è raccontata in un libro,Giardino degli aranci, da Salvatore Lupo, che indica nella loro presenza e coltivazione non solo un elemento economico, ma anche «un sistema di relazioni umane, un modo d’essere di persone e ceti, un criterio di comunicazione con realtà esterne, in una parola un mondo».
Gli agrumi hanno mosso l’ammirazione di personaggi illustri, tra cui Galileo che nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632) cita il piacere principesco e costoso di seminare in vaso «un arancino della Cina per vederlo nascere, crescere e produrre sì belle frondi, fiori così odorosi e sì gentil frutti». Per non parlare dei poeti arabi, che rendono il frutto – rubato da Ercole nel Giardino delle Esperidi per darlo al mondo – un oggetto sensuale. Fino ai versi di Jacques Prévert che più di un produttore o commerciante ricorda: «Un’arancia sul tavolo / il tuo vestito sul tappeto /e, nel mio letto, tu /dolce dono del presente». Ma forse le osservazioni più acute sul frutto le ha scritte il designer e artista Bruno Munari (Good Design, Corraini). Ci fanno capire come il packaging sia – lo ricordava anche il chimico Primo Levi – una delle attività in cui si è specializzata la Natura. Per Munari l’arancia ha «una serie di contenitori modulati a forma di spicchio», raccolti in un imballaggio «abbastanza duro alla superficie esterna e rivestito da una imbottitura morbida interna di protezione»; per sbucciarla non è necessario «uno stampato allegato con le istruzioni per l’uso», così come «l’imballaggio non va ritornato al produttore». Il massimo risiede negli spicchi (ciascuno «ha esattamente la forma della disposizione dei denti della bocca umana») e nel colore: se fosse blu, scrive Munari, «sarebbe sbagliato». Infine, nonostante siano a volte incartate in sottili fogli o abbiano un piccolo adesivo sulla buccia, le arance non presentano nessun logo o simbolo. Perciò appartiene a tutti.