la Repubblica, 10 luglio 2025
L’effetto Donald sulla Libia divisa che mette in crisi gli europei
Che si tratti di Bengasi, dove il ministro Piantedosi viene respinto alla frontiera, o di Tripoli, dove incriminano il trafficante che l’Italia ha rilasciato con tanti ossequi, il panorama della Libia diventa sempre più problematico per il governo Meloni. E non si tratta di una questione secondaria. Sull’altra sponda del Mediterraneo esiste una grande risorsa, il petrolio, e una minaccia altrettanto rilevante, l’uso dei migranti come arma, che condizionano la vita del nostro Paese.
Dalla morte di Gheddafi il potere in Libia è a dir poco frammentato ma in questo momento l’Europa, e in particolare l’Italia, sono in difficoltà su tutti i fronti. Il nuovo scenario viene ricondotto alla politica dell’amministrazione Trump che porta avanti un suo piano di unificazione e taglia fuori le cancellerie del Vecchio Continente.
È un argomento toccato un mese fa nei colloqui tra Macron e Meloni, con il presidente francese che è parso pronto ad archiviare la storica rivalità per mettere in guardia la premier sulla situazione, che preoccupa pure Londra e ha visto Atene già mobilitarsi: sotto la spinta della Casa Bianca si sta delineando un’intesa globale sul futuro del Paese e delle sue ricchezze. La mediazione statunitense sta lentamente livellando i contrasti tra la Turchia, referente principale di Tripoli, e l’Egitto, protettore di Bengasi, in un processo che non sembra dispiacere neppure alla Russia.
La pedina più debole è il premiertripolino Dbeibeh, l’unico con una forma di riconoscimento internazionale, che a metà maggio ha tentato di liberarsi del condizionamento delle milizie ma ne è uscito con le ossa rotte. Il blitz fallito gli ha alienato i consensi di Ankara e da allora punta sull’appoggio dell’Ue, promettendo in cambio di arginare le partenze dei migranti. Anche martedì però nella capitale ci sono stati combattimenti tra i suoi pretoriani e l’agguerrita Forza Rada, quella a cui è legato il generale Najeem Osama Almasri. La sua incriminazione non nasce da una tardiva attenzione dei magistrati tripolini per i diritti umani, ma dalla volontà di colpire un rivale del premier e assecondare le richieste di Bruxelles. Allo stesso tempo peròil provvedimento potrebbe portare i trafficanti in lotta con Dbeibeh a scatenare un’ondata di scafisti verso la Sicilia: gli imbarchi chiave della costa sono nelle loro mani.
L’ottantenne maresciallo Kalifha Haftar, autoproclamato signore della Cirenaica, invece sente di avere l’ultima occasione per impadronirsi dell’intero Paese e garantire la successione ai figli. Oggi Saddam e Khaled sono insediati al vertice del cosiddetto Esercito Nazionale mentre Belgassem si dedica alle relazioni economiche e diplomatiche con una crescente visibilità. C’è chi ritiene che sia proprio la competizione tra gli eredi a imprimere una linea più dura verso gli europei, da cui è scaturito il respingimento di Piantedosi e degli altri ministri Ue.
Con scaltrezza levantina, sono diventati alleati della Turchia: il nemico che nel 2020 li ha sconfitti nell’assedio di Tripoli. Adesso Erdogan e Haftar stanno per ratificare il trattato sullo sfruttamento dei giacimenti petroliferi sottomarini che ignora le prerogative greche e cipriote. Alle proteste di Atene, il clan di Bengasi ha risposto lasciando salpare grandi pescherecci colmi di migranti verso Creta. Il primo ministro Kyriakos Mitsotakis due settimane fa ha schierato la flotta davanti alla Cirenaica e intensificato il dialogo con Dbeibeh. Il clan Haftar non si è lasciato intimidire: lunedì e martedì altre 1400 persone sono approdate a Creta, cinquecento ieri mattina. Per disincentivare gli arrivi, la Grecia ha sospeso per tre mesi le domande di asilo: una mossa che però potrebbe dirottare il flusso verso l’Italia.
Non si tratterebbe del solito braccio di ferro per strappare finanziamenti: i padroni della Cirenaica ambiscono a una legittimazione europea o quantomeno a spezzare il rapporto tra l’Ue e Dbeibeh, rendendo concreta la prospettiva di una nuova marcia su Tripoli. Gli Haftar continuano a ricevere armamenti e mercenari da Mosca che usano già per estendere il controllo del Fezzan, la regione meridionale strategica per l’espansione africana del Cremlino. Siamo davanti al Grande Gioco, una partita che impone all’Italia di cambiare passo o rischiare di pagare il prezzo più alto.