La Stampa, 10 luglio 2025
Intervista a Marco Giallini
«Prossimo progetto? Non me lo ricordo. So solo che questo agosto starò al mare con i figli e le loro fidanzate» La quiete dopo la tempesta? Impossibile, perché Marco Giallini, come diceva il titolo del film di Daniele Luchetti, è lui stesso tempesta, un concentrato di tuoni, fulmini e insofferenza, addolcito solo da un gusto marcato per le cose autentiche, dalla consapevolezza che «la vita è pesante» e che, per resistere, bisogna fare finta di non prenderla sul serio: «Ai ragazzi ho raccomandato solo una cosa… state attenti, perché l’idea di sentirmi chiamare nonno… un po’ mi rompe le scatole». All’Ischia Film Festival (diretto da Michelangelo Messina) Giallini ha ricevuto l’Ischia Film Award (per il ruolo nella Città proibita di Gabriele Mainetti), ma la sua stella di attore amatissimo, di cinema e tv, brilla oltre premi, interviste, selfie, apparizioni social: «Non sono uno di quelli che dicono “il mio pubblico”. Ma quale pubblico? Ma quale mio? Maddeche?».
Estate con i figli. Che cosa si augura per loro?
«Di essere abbastanza felici nella vita. Sono due ragazzi sensibili, di un certo spessore intellettuale. Uno sta studiando recitazione, vorrebbe entrare al Centro Sperimentale, sono andato a vedere il suo saggio di fine anno, mi sono commosso, ha portato in scena un testo di Mattia Torre, che era un mio grande amico, mi ha fatto un’impressione tosta…vicino a me avevo l’altro figlio, che fa l’assistente alla regia, è stato un momento toccante».
Le fa piacere che i figli abbiano scelto di muoversi nel suo stesso ambito?
«Sì, del mondo dello spettacolo non gliene importa niente, però sono molto talentuosi, molto bravi e quindi molto amati. Per me questa è la cosa più importante».
Che momento è della sua vita?
«Ho avuto un po’ di problemi di salute, cose stupide, che però portano conseguenze noiose, regole da seguire… Sono abituato a sparare forte, a vivere a 200 all’ora, se me devo ferma’ un attimo, già me rode. Come diceva Steve McQueen, io vado forte perché così non mi prende nessuno».
Cosa la rende più felice?
«Nella vita personale, può immaginare, i miei figli. Nel lavoro tante cose. Per esempio la soddisfazione di quando, per la prima volta, sono stato preso per recitare in un film importante. È stato Marco Risi a farlo, mi affidò la parte del marito di Monica Bellucci nell’ Ultimo Capodanno, ebbi una botta emotiva notevole, venivo dal teatro off, lo facevamo io e Valerio Mastandrea».
È vero che chiese alla Bellucci di farle da baby sitter?
«Come no! Certo, Monica è simpaticissima, stava già con Cassel, eravamo a un festival, sempre qui a Ischia, sono arrivato con i bambini e gliel’ho domandato. Prima ha detto “oddio”, poi me li ha tenuti, non ha creato nessun problema, sul set eravamo stati bene insieme».
Non può negare di aver sempre esercitato un gran fascino, pubblico femminile in testa. Secondo lei perché?
«Da giovane ero un bel ragazzetto… Quando ho capito che potevo piacere un po’ a qualcuna… a Roma si dice “ci ho giobbato”, insomma un poco me ne sono approfittato. Pentito? No no, fra un po’ ricomincio».
Com’è stato il suo primo amore?
«Il primo non me lo ricordo proprio, non saprei… però la prima volta che mi sono innamorato sul serio, è successo con mia moglie, eravamo ragazzi, avevo 23 anni. L’ho lasciata un po’ sulle spine, poi però…».
Ha lavorato con i migliori autori del cinema italiano. Quali film hanno segnato una svolta nella sua carriera?
«Tanti, Posti in piedi in Paradiso, Acab, Romanzo criminale, Tutta colpa di Freud, Perfetti sconosciuti … poi mi è pure capitato di fare film che sono stati visti da me, dal regista, e dal montatore, ma non fa niente, in Italia “film d’autore” vuol dire film che nessuno vedrà».
Ha lavorato con Paolo Sorrentino, nell’Amico di famiglia. Come è andata?
«Benissimo. Il mio sogno è un altro film con lui, un grande, è stata un’esperienza molto bella. C’è stima reciproca».
Si è mai arrabbiato sul set?
«Una volta si. Avevo già girato una cinquantina di film, stavo recitando con un regista improvvisato, un aiuto che sostituiva il titolare, a un certo punto, mi ha detto “Marco, adesso, tu esci, guardi una volta a destra, una a sinistra e poi di nuovo a destra della macchina da presa, che sarebbe la tua sinistra”. Mi sono fermato e gli ho detto “ma tu chi sei? Ma che diavolo di lavoro fai?”. Dopo tanti anni pensava che non avessi ancora imparato le cose basilari, come si sta davanti alla macchina alla presa. Poi l’ho perdonato, la sera gli ho offerto la cena».
Che rapporto ha con il personaggio di Rocco Schiavone?
«Senza, sarei morto. Anche senza la Valle d’Aosta sarei morto. Aosta è la mia seconda casa, mi hanno dato le chiavi della città, gli ho detto “state attenti, perché qui, adesso, decido io a chi apro e a chi no”. Schiavone è un’avventura stupenda, la devo alla Rai e a Antonio Manzini che ha inventato il personaggio».
La prima casa è Roma. Quali sono i suoi luoghi preferiti?
«Montesacro, Talenti, quelle sono le zone mie, i posti dove mio padre diceva che, quando lui era piccolo, c’erano le pecore».
C’è un ruolo che le piacerebbe fare?
«L’Uomo Ragno, perché ha una bella tuta e poi, quando si mette la maschera… be’, sotto potrei anche non esserci io».
Ha raccontato spesso personaggi complessi. Ci si ritrova?
«Ci ho provato, la vita è complicata, io guardo, noto, poi cerco di esprimere quello che ho visto, è quello lo scopo di questo lavoro, anche se poi sono momenti, la gente ha altro a cui pensare».
Si è laureato a 37 anni. Perché?
«Una questione personale. Significa che posso fare quello che voglio. Se è per questo, dipingo e ho pure letto Italo Calvino».
Oltre che attore, è anche rocker. Tuttora?
«Come no, certo. Sono un rocker e non ho bisogno di farlo vedere agli altri. Ho le mie chitarre, tre batterie, lo studio di registrazione, ho pure suonato e cantato con Francesco De Gregori».
Soddisfatto?
«Sì, spero di fare ancora, e altrettanto. Chiunque sarebbe soddisfatto della mia carriera». —