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 2025  luglio 10 Giovedì calendario

Dario Villa, il folletto che usava i versi come una cerbottana

Si perde tra i reflui della leggenda la figura, voluttuosamente fuori tempo, madreperlacea, fuori conio rispetto all’era, di Dario Villa (1953-1996). In una fotografia di traslucida bellezza (scattata da Davide Mattone), Villa ha i capelli sparsi all’aria e il papillon, lo sguardo estatico, di una purezza che crocefigge. A vederlo intendo pare, più che altro, un Puck, un Mowgli, un arcangelico folletto.
Piacque a Giovanni Raboni, il doge della poesia milanese, che di Villa pubblicò l’estrema raccolta, Abiti insolubili, per Marsilio, nel 1995. In una poesia, Villa, accerchiato da specchi convessi, si fa il ritratto: “redattore dell’aria, ho molte volte/ volato tra volumi d’etere, tremanti nevi,/ ho stampato refusi folgoranti/ nel cielo plumbeo delle tipografie,/ volutamente confondendo le/ valutazioni della mente”. Morì poco dopo, nel marzo del ’96, troppo giovane era nato a Milano il 12 giugno del 1953 lasciando di sé rade tracce, tra la falena e l’aquila. Aveva esordito con una silloge, Lapsus in fabula, su Poesia Uno, libro collettivo edito da Guanda nel 1980, tra testi di Vittorio Sereni e Giovanni Giudici, Giancarlo Pontiggia e Alessandro Ceni. Cinque anni dopo, gli arrivò il Premio Mondello: insieme a lui premiarono Mario Luzi e Bernard Malamud. Preferì, per indole indocile, per la beata incapacità di mettere a profitto il talento, sperperarsi in introvabili edizioni d’arte. Pubblicò plaquette dai titoli sgargianti: Altra, da dentro; Periplo delle perplessità; Gravi danze interrotte; Venere strapazzata dai lunatici; La bambola gonfiabile e altre signore. “Credo che pochissimi poeti italiani, negli ultimi decenni del secolo appena trascorso, siano stati così costantemente, oserei dire così insistentemente frequentati dalla grazia”, scrisse Raboni. Eppure, Dario Villa, l’infinitamente giovane, il poeta con la cerbottana come lira, finì schierato tra le leggende, in esilio dalle patrie antologie. I suoi versi, spesso miliari sentite qui: “certe volte/ risbuco dalla lieve/ pelle dei sogni/...e quelle schiere angeliche/ che mi baciavano l’inguine/ (dico i dorati caribi in amore)/ sono feti di topo,/ fetide dita, sacchi di furore/ e muoiono succhiandomi la linfa”, si passavano di labbra in labbra, nelle catacombe: di libri nemmeno l’ombra. Nel 2001 per Seniorservice Books, Katia Bagnoli impilò Tutte le poesie di Dario Villa; il volume sparì quasi subito dal convegno librario, librandosi come un fuoco fatuo il mito di Villa, intanto, il poeta che ha fatto lo scalpo alla poesia con la cristica falcata di un flâneur, montava.

Ora che di questo “Rimbaud della Milano post-moderna” (Alessandro Giammei) è pubblica, in edizione doc, l’Opera in versi (Crocetti, pagg. 370, euro 22), non reggono più le scuse: Dario Villa dev’essere installato tra i grandi poeti del nostro secolo, del futuro prossimo. Certo, per brigantaggio del linguaggio Dario Villa sfugge a ogni classifica lo ripeto: sparito a noi trent’anni fa, è il poeta del futuro, è il poeta che verrà : sta all’avanguardia del contro-canone della letteratura italiana che ha per padre Dino Campana e per madre Amelia Rosselli e per cugini e fratelli e parenti una schiera di poeti disadatti, disfatti, difformi, magniloquenti nell’eccesso (alcuni nomi: Lorenzo Calogero e Scipione, Giuseppe Piccoli e Ivano Fermini, Gian Giacomo Menon e Claudia Ruggeri). Poeti, cioè, che hanno minato le sorgenti del linguaggio, che parlavano le lingue degli angeli, indigenti all’attenzione critica, per l’accademia indegni.
Raboni vide in Villa le stimmate “di Corbière o di Laforgue”; Daniele Piccini ha scritto che questo poeta dotato del “talento profondo della inappartenenza, della noncuranza elevata a norma e stile”, è affine a certo Palazzeschi e a certo Caproni; più che altro, Villa ci ha insegnato “che la verità è prossima al nonsense, che il reale va a braccetto con l’assurdo, che il soggetto è uno specchio, in sé vuoto, che ospita quanto lo attraversa” (così Marco Merlin in: Poeti nel limbo, Interlinea, 2004). Poeta dall’intelligenza impavida, spavalda, autentico antidoto al dominio dell’algocrazia, Dario Villa era un sapiente: spesso i suoi versi, pur maculati di ironia, sono intrisi di orfismo. Alcuni esempi da stamparsi sull’osso occipitale: “Le mani come rottami roventi./ Annuso belve../ Devi sbrigarti. Comincio a trasfigurarmi”; “certe notti incontravo la mia ombra;/ tramontavamo in vasche senza fondo,/ caracollavo a lungo, i pavimenti/ aperti pieni di zucchero azzurro”; “vivo nel centro del nervo solare/ e sono io per gli altri, altro per me:/ intanto tiro a scomparire: spiro”. A tratti, al caglio del coup de théâtre linguistico, del limerick, resta una ridda di sentenze gnostiche ("il mondo è fuoco/ bianco, vuoto, quadrato:/ l’io che si conta"): Villa pare vissuto all’epoca del cristianesimo nascente, del Messia ancora in feto, quando era normale far risorgere i morti, quando Dio rapiva al terzo cielo i prediletti.

Tra le altre cose, Dario Villa ha tradotto William Blake, Basil Bunting e David Gascoyne, tutti poeti a lui connaturati; la sua traduzione di Un uomo solo, il romanzo di Christopher Isherwood, è ancora in catalogo Adelphi. Nel 1988, su Poesia (anno I, numero 12) dichiarò la propria poetica: che la poesia, la patetica, “smetta una buona volta di nominare il mondo e vada avanti tranquilla a rovesciarne la fodera”.
Girolamo Melis, pubblicitario e pensatore anarchico (lavorò con Enzo Jannacci e Celentano, sfogliava Heidegger, citava Lacan, preferiva gli abissi di Lev estov e la mitologia Bantu), fu sodale di Villa: “Ci facevamo regali gratuiti e superflui, comprese le gags ai tavoli della grande multinazionale”, scrisse, in un numero del dimenticato Domenicale (era il 4 gennaio del 2003), “devo a lui i due regali più grandi e più pesanti: il rimpianto e la felicità della memoria”.
Felicità è la parola esatta a riassumere l’opera di Dario Villa, il poeta che ci divora con leggerezza, il poeta-ghepardo. Quanto al resto, i poeti restano memorabili perché non hanno memoria: inceneriscono.