Avvenire, 10 luglio 2025
Abiti usati, Africa discarica d’Europa
L’Africa è diventata la discarica ufficiale della fast fashion europea. La moda invenduta tra gli scaffali dei grandi magazzini, abiti usati e prodotti con fibre sintetiche di Francia, Italia, Germani e Inghilterra finiscono per inquinare territori in Angola, Kenya, Repubblica Democratica del Congo, Tunisia, Ghana e Benin. Questi Paesi complessivamente, nel 2022 hanno importato quasi 900 mila tonnellate di abiti usati. «Ogni anno nel mondo vengono prodotte circa 83 milioni di tonnellate di rifiuti tessili – denuncia Greenpeace – il 65% dei quali è costituito da fibre sintetiche derivate dai combustibili fossili, mentre ogni secondo l’equivalente di un camion della spazzatura pieno di vestiti viene bruciato, disperso nell’ambiente o avviato in discarica. Tra le principali destinazioni di questa tipologia di rifiuti c’è l’Africa, che nel 2019 ha ricevuto il 46% del tessile usato dall’Unione Europea: per la metà si tratta di indumenti di scarto che finiscono soltanto per inquinare l’ambiente».
Soltanto il Kenya, nel 2021, aveva ricevuto 900 milioni di capi di seconda mano, principalmente da Europa e Regno Unito: il 50% di questi abiti, però, è risultato invendibile per la sua scarsa qualità o danneggiato, finendo in discariche, bruciando all’aperto o inquinando corsi d’acqua. Il Ghana, ad esempio, accoglie nei suoi mercati 15 milioni di indumenti di seconda mano alla settimana, anch’essi per quasi la metà invendibili e dispersi nell’ambiente. «Il documento pubblicato da Greenpeace Africa descrive una situazione allarmante, evidenziando gli impatti ambientali e sanitari di un fenomeno ormai fuori controllo: il commercio degli abiti usati in territori estremamente vulnerabili. Per affrontare la crisi dei rifiuti tessili devono essere messe in atto nuove politiche che riescano a contrastare efficacemente l’inquinamento ambientale», sottolinea Greenpeace Italia. «È fondamentale affrontare il problema all’origine, intervenendo su sistemi di produzione insostenibili come il fast fashion e l’ultra fast fashion».
L’industria della moda è responsabile fino all’810% delle emissioni di gas serra, causate dagli alti consumi di energia nelle catene di fornitura globale e aggravate da un modello di business dispendioso come il fast fashion, che produce abiti usa e getta progettati per diventare rifiuti dopo poche settimane. I tessuti sintetici contribuiscono alla dispersione di microplastiche nell’ambiente, compromettendo anche la capacità degli oceani di assorbire carbonio e accelerando il cambiamento climatico. «Grandi volumi di abiti dismessi finiscono spesso accumulati in discariche illegali a cielo aperto, ostruiscono gli scarichi e si riversano nei corsi d’acqua, aumentando il rischio di malattie trasmesse tramite l’inquinamento di suolo, aria e corpi idrici». Per fronteggiare la crisi, Greenpeace chiede di ridurre a monte la produzione di tessuti sintetici, di sviluppare fra gli altri infrastrutture e impianti per la raccolta, la selezione e il riciclo dei rifiuti tessili, gestire in modo più efficace indumenti e tessuti usati; di investire nella produzione tessile locale e incoraggiare l’upcycling (il riciclo creativo) e la riparazione degli indumenti. È infine importante avviare campagne educative per coinvolgere e responsabilizzare i cittadini sugli impatti ambientali e sanitari dei rifiuti tessili. Nei giorni scorsi Greenpeace Italia ha pubblicato “Oltre il fast fashion”, un manuale per imparare a fare acquisti più consapevoli. La guida è scaricabile gratuitamente.