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 2025  luglio 09 Mercoledì calendario

«I miei dialoghi con Trentini nelle celle lager venezuelane»

«Dobbiamo andare. Non c’è tempo», dicono gli uomini di un commando armato, senza identificativi, recatosi al Rodeo I per prelevare un cittadino svizzero recluso al Penitenziario del municipio Zamora. Gli infilano un cappuccio in testa e lo portano fuori dalla cella. Ammanettato, testa bassa, pistola puntata sul cranio. La canna dell’arma orienta i suoi passi verso l’esterno. Viene caricato su una vettura, poi l’attesa. «Svizzero, non pensarci nemmeno. Sei a due passi della libertà», gli dicono prevedendo tentativi di fuga o altre mosse disperate. Una volta sceso dalla vettura, l’ormai ex detenuto incontra una delle principali figure del governo venezuelano – non possiamo dire quale -, che lo porterà direttamente alla residenza dell’ambasciatore svizzero a Caracas, segnando così il suo rilascio definitivo. «Se io ce l’ho fatta c’è anche speranza per Alberto Trentini e per gli altri che sono ancora lì», dice, ricordando il periodo della prigionia, in cui ha conosciuto anche il cooperante veneto detenuto in Venezuela dal 15 novembre 2024, quasi otto mesi, mentre lavorava per l’ong “Humanity & Inclusion”.
È stato quindi il suo governo a provvedere per la liberazione? E in cambio di cosa?
Sì, la trattativa è stata portata avanti dal ministero degli Affari esteri della Svizzera. Per Caracas possono decidere solo in tre: il presidente Nicolás Maduro, il ministro dell’Interno Diosdado Cabello o il ministro della Difesa Vladimir Padrino López. È stato uno di loro a portarmi nella residenza dell’ambasciatore. Ha capito che non ero stato trattato bene: mi ha detto che si era trattato di un errore. Ero pietrificato, non riuscivo neppure a parlargli. L’oggetto della trattativa è di carattere riservato. «Ci è costata cara», è l’unica che mi hanno detto le autorità del mio Paese senza specificare niente. È stato soltanto il mio governo a far qualcosa: ci sono tanti avvocati dentro il Paese, che chiedono soldi in cambio di informazioni, ma queste strade parallele rischiano di rivelarsi fasulle.
Lei ha conosciuto Alberto. Cosa può dirci di lui?
L’ho visto arrivare a Boleíta, nella direzione di Controspionaggio militare (Dgcim) dove io ero stato trasferito dopo un primo periodo a El Rodeo I. Due giorni dopo siamo stati trasferiti proprio lì, a El Rodeo, e ho potuto conoscerlo meglio. Mi è parso simpatico sin dal primo momento: è un grande fumatore. Essendo figlio unico il suo pensiero era rivolto ai genitori, che hanno una certa età. Non merita di stare lì. E spero possa uscirne presto.
Perché lei è stato detenuto?
Al momento della detenzione non sono stato informato sulle ragioni dell’arresto. Eravamo più di quaranta: tutti dicevamo di essere innocenti. Ma non ci fidavamo gli uni degli altri: questione di sopravvivenza. Poi siamo stati presentati a gruppi nel Tribunale e quando ci hanno parlato di “terrorismo” e “cospirazione” abbiamo capito di essere tutti innocenti. In fondo siamo pedine di scambio. E c’entrano le sanzioni contro Caracas e tutti i problemi politici del Venezuela.
Com’era la vostra condizione dentro il carcere?
Le condizioni di prigionia sono orribili. Si viene tagliati fuori dal mondo. C’è la speranza di tornare a casa, ma non si sa come né quando. La prigione poi è fatiscente: non c’è igiene e non ci sono abbastanza attività. Si può solo discutere con gli altri, andare a Messa, leggere testi religiosi e fare sport. Ci dicevano di pensare il carcere come una vacanza. Ma così non era: avevo 45 minuti d’aria tre volte a settimana. Insomma, non provo simpatia neppure per le guardie, sempre col volto coperto e una psiche scissa: capaci di ridere insieme a te e torturarti cinque minuti dopo.
Cosa volevano?
Più di una volta hanno cercato di estorcere confessioni false su un complotto terrorista anti-Maduro. Ero spesso legato a una sedia, con la testa coperta da un cappuccio. Sono stato anche obbligato a rilasciare un’intervista in cui dicevo ciò che loro volevano, mi hanno costretto a firmare un documento in cui ammettevo reati inesistenti. Altrimenti non sarei uscito. Chiesi più d’una volta di vedere il mio ambasciatore. «Non siamo in Europa», mi rispondevano. È un trauma. Ricorderò sempre ciò che mi è stato fatto lì.
Cosa direbbe ai genitori di Alberto? E com’è il giorno dopo?
Direi loro di avere pazienza e di non perdere la speranza. Alberto sta bene, fisicamente è a posto. Nel mio caso, la vita è cambiata nel giro di pochi mesi. Sono sotto terapia e in casa risentiamo ancora degli strascichi psicologici e finanziari di quest’esperienza. Per i miei genitori è stato difficile: mio padre ha avuto due infarti per l’ansia di non sapere se fossi vivo o meno. Ora tocca ripartire, ma non è facile. A tenermi in piedi era quel filo invisibile che credo ci unisca ai nostri cari, anche se non riusciamo a sentirci né a vederci: è un legame utile per restare vivi, anche nei peggiori momenti.