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 2025  luglio 09 Mercoledì calendario

Bermuda e ciabatte in ufficio e in classe Ma il caldo ci autorizza a essere sciatti?

Preceduto da una folta schiera di sindaci che amministrano le località balneari della Penisola, Achille Ordine – primo cittadino di Diamante, in provincia di Cosenza – qualche giorno fa ha firmato un’ordinanza che vieta di circolare o sostare in costume da bagno o a torso nudo per le strade, le vie, le piazze, gli esercizi commerciali e le aree verdi di tutto il territorio comunale. Fino al 30 settembre chi non rispetta le elementari norme del decoro per educazione, dovrà farlo per legge. Regole ancora più rigide sono in vigore a Gallipoli, già dal 4 giugno e fino alla fine dell’estate: negli uffici comunali non si entra neppure in bermuda e canottiera e men che meno in bikini e calzoncini da bagno.
L’ordinanza si fonda sull’articolo 50 del decreto legislativo 267/2000 che consente al sindaco di emanare provvedimenti urgenti per garantire la sicurezza e la vivibilità urbana: e circolare in mutande e reggiseno – anche se nella versione da spiaggia – è considerato “pregiudizievole del decoro”. E devono aver davvero esagerato i turisti se si è arrivati a tanto: con le giornate roventi già vissute e quelle minacciate dai meteorologi un abbigliamento leggero è stato – e sarà – una questione di sopravvivenza. Certo, dipende da quanto leggero… È evidente che il riscaldamento climatico abbia un’influenza anche sul guardaroba. E non da oggi: nel 2005, l’allora primo ministro giapponese Junichiro Koizumi promosse la campagna “cool biz” – che letteralmente significa affari freschi ma per il gioco di parole anche ultima moda – invitando politici, funzionari, impiegati pubblici e privati ad abbandonare giacca e cravatta per risparmiare energia e combattere l’inquinamento causato dall’uso sfrenato dei condizionatori negli uffici. L’invito fu accolto, e probabilmente anche benvenuto, come testimoniarono le vendite delle camicie a mezza manica, vorticosamente salite in quell’anno nei grandi magazzini giapponesi.
Anche un altro tipo di cambiamento induce a regole meno rigide quando si tratta di abbigliamento da ufficio: quello generazionale. Nel 2016, Jamie Dimon – presidente e amministratore delegato di JPMorgan Chase, la più grande delle quattro maggiori banche americane – reduce da una visita nella Silicon Valley decise di cambiare il dress code dei dipendenti. Che sempre rigido è rimasto ma meno di prima: sì a pantaloni casual, sandali, t-shirt e polo. La speranza era attirare i millennials, i giovani talenti di allora, che chiedevano informalità confessando senza remore di preferire aziende dove fosse possibile indossare di tutto un po’, gruppi come Meta (prima Facebook), Google, o Apple. Lì, i jeans non te li nega nessuno.
Nelle banche italiane esiste un dress code piuttosto flessibile, specialmente per chi non lavora a stretto contatto con il pubblico. Hanno regole di abbigliamento tutti gli uffici pubblici ma molto morbide: richiedono che gli impiegati si vestano in modo “professionale e decoroso”. E, come gli utenti possono verificare, ciascuno interpreta i due aggettivi a modo suo.
Fuori dagli uffici e dai diversi ambienti di lavoro le regole si impongono in casi estremi, come quelli già citati. Dove la legge non arriva, non si può che chiedere – e per favore – di regolarsi con educazione e buon senso. Nei musei, per esempio, o nei luoghi di culto, e dovunque un look discinto potrebbe essere motivo di disagio per le altre persone. Ma se è necessario spiegare agli adulti quali sono gli abiti adatti alle diverse circostanze della vita, cosa bisognerà fare con i ragazzi? Anche le scuole si sono da tempo organizzate e ciascuna ha le proprie regole, a volte rigide a volte meno. Quelle che si possono immaginare: si lascia scoperto il meno possibile e non ci si presenta in ciabatte. Via i cappelli dalla testa. Alcuni istituti sono arrivati a vietare o a limitare la lunghezza delle unghie finte delle ragazze: se sono acuminate come artigli, finiscono per essere pericolose anche quando non c’è alcun intento di ferire. Ed è giusto che si cominci a scuola a imparare cosa è opportuno e cosa no, che la forma è sostanza. La trascuratezza è una strada in discesa, si fa presto a farla diventare un’attitudine, a permetterle di contagiare altri aspetti della vita. E se è vero che l’abito non fa il monaco, quando l’abito è quello mentale non riguarda più solo come ci si veste ma come si parla, come ci si pone nei confronti del prossimo, che genere di cittadini si vuole essere.